Al Periferico Festival la danza tellurica di Paola Bianchi
VOICE OVER
[…] È una danza, o forse un’anti-danza, di rigorosa e preziosa fattura, eseguita da tre performer che parlano altrettanti linguaggi corporali, con una sintassi e un lessico aguzzi, potenti e polimorfi. Il titolo dello spettacolo, presentato in anteprima nazionale, è Voice over, l’autrice è Paola Bianchi, le tre danzatrici sono Barbara Carulli, Sara Cavalieri e Valentina Foschi, cui fanno da sensitiva cornice cinque “custodi”, espressioni del territorio.
In una attraente semioscurità l’ottetto abbozza due sacre conversazioni al ralenti: quasi un prologo misterico da cui le tre danzatrici si staccano per dare inizio a un’ininterrotta composizione di propulsioni, implosioni e cadute. Traducendo in atti indicazioni che ricevono per mezzo di auricolari, alimentano ben presto un teorema di danze sulle ginocchia, in cui il movimento è originato da eruzioni improvvise, in una implacabile contorsione e sollecitazione femoro-rotulea e malleolare. È un collaudo poetico e coreografico della mirabile ingegneria di cartilagini, legamenti, tendini, articolazioni e muscoli di cui è composta l’anatomia umana.
Quasi non ci si avvede della mancanza di un vero e proprio supporto strutturato di luci, scenografie e corredo musicale. Due gelidi fari da cantiere e qualche luce bianca si uniscono a un tessuto sonoro fatto di rumori di realtà, vociare di folle, scampanii, radioline accese con cavatine tratte da opere liriche, qualche accenno pianistico, lievi effetti elettronici. È un impasto fonico-luministico che delega la totalità semantica del discorso alla trinità di corpi che, ormai ce ne avvediamo, vive un sempre più irrequieto e profondo dramma motorio, dove il corpo sperimenta estremisticamente la propria pieghevolezza, la propria interna inquietudine, e attraverso cui, leggiamo nelle note di regia, vuole provare a trasmettere, a ottant’anni dalla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, quell’indicibile esperienza.
Ora dal gruppo si stacca Sara Cavalieri, gli occhi e i sopraccigli scuri e grandi, il volto di infantile espressività, la chioma da enfant sauvage che contiene a stento la coda di cavallo scarmigliata e lunghissima. Alta figura di airone, organizza un suo personale poemetto fatto di intarsi a mezzo busto, dove le ginocchia sono nuove ipotesi di piedi. Le braccia, il dorso e le lunghe gambe vivono una tensione ininterrotta di slogature, distorsioni e crolli: perenne motus corporis che, proprio perché senza parole, è un ancor più penetrante motus animi.
Ora anche Barbara Carulli e Valentina Foschi, una dopo l’altra, compongono assoli di eterodossa motilità, decaloghi di spasmi, distonie, discinesìe e torsioni innaturali. Diversa però è la loro sintassi motoria, perché diverso è il loro corpo, più compatto, i fasci muscolari più pronunciati, benché flessuosi: nei femori, nel dorso, nelle braccia. Ora la trama sonora sembra rimandare a rumori di guerra, a un pubblico vociante di un incontro di box con i segnali di fine e inizio round, a qualche verso stravolto di uccello, a un rumore come di puntina di giradischi che gira a vuoto. Sara Cavalieri, che aveva trovato una momentanea liberazione con una serie di piroette, è di nuovo a terra e guarda il pubblico negli occhi, mentre si contorce e assume forme impensabili.
Più in fondo anche Barbara Carulli si affranca temporaneamente e sfrangia il corpo in una serie di ampie volute, fatte di spinte e controspinte che dalle braccia si irradiano con un moto vibratile ed esatto all’addome e alle gambe. Ricongiungendosi circolarmente all’esordio, una semioscurità avvolge la conclusione dello spettacolo, in cui il terzetto aggiunge ulteriore accelerazione cinetica all’inesauribile moto dei corpi, che per la prima volta si abbandonano a una respirazione affannosa, per sedersi finalmente insieme, in un’immobilità dominata da un lungo, liberatorio, umanissimo ansimare.
[...]
Biopolitica del corpo-macchina
FABRICA [ AAMOD ]
La reiterazione di una quotidianità fisica e mentale, costretta nelle dinamiche del consumo, è riprodotta da un corpo che smaterializza la realtà portando in evidenza la nevrotica sofferenza di un fisico sottoposto alla ripetizione dove lo slancio vitale non muore ma sopisce e si incanala nella ritmica ripetizione di ingranaggi capitalistici che, cuore metallico e disumanizzato, battono il tempo della sopravvivenza.
Mantide d'acciaio, il corpo si fa macchina, programmato, programmabile e controllato, si autosostiene e solleva, diventa soggetto e oggetto, artefice e vittima, così come il ciclo produttivo si alimenta e vive sui e dei suoi stessi lavoratori, in un unico cerchio in cui chi muore per produrre è lo stesso che consuma.
Il rumore bianco della fabbrica, un fondo sonoro, nuova e antica ninna nanna, culla e addormenta la coscienza, l' incoscienza, fusa feline che calmano la preda e il flusso procede nell'alienazione che inibisce il cambiamento.
La riduzione del campo d'azione del lavoratore e dello spazio vitale sono micro movimenti che culminano con l'abbattimento della lotta e della speranza in una critica politica che affonda le radici nella lotta di classe degli anni settanta e nelle sue vittime, rigenerandosi nella contemporaneità del suo messaggio.
Per paola bianchi
FABRICA [ AAMOD ]
Gabriele Germano Gaburro
- 17 aprile 2024
ultranova
Comincia con un'ala rotta, il
moncherino d'un braccio contratto,
alzato e calato, alzato e calato per il
segmento d'un corto tracciato, arco di
rigidezza automa. Un deltoide pulsa
d'un battito minore, un nervo un
tendine una fibra, millimetri divergenti
dall'assegnata funzione, eppure
tuttora sottomessi, storditi, assuefatti
alla tesa partitura d'una meccanica
obbedienza. Assurdità di averessere
un corpo, assurdità del copione
prescritto a questa anatomia del
fallimento. Assurdità della posa,
qualunque posa, postura impostata,
impostura imposta, e reiterata,
reiterata, reiterata... potesse il lutto
sospendere la spudoratezza d'ogni
giorno!
S'agita così compresa, composta e
disperata, questa figurina macilenta,
rimpiccolita, soffocata... passerotto
ferito col becco mascherato da un
rovo di ciuffi argentati, che a tratti
trattengono un lucore metallico, come
avendo lungamente assorbito i riflessi
d'una catena. Arrugginita, atrofizzata,
indurita nel suo intimo crampo
alienato, tremata dall'impercettibile
sbavatura d'una vibrazione, che ora
batte il quarto di carne d'una gamba
sola, solo una, separatamente
accennando schisi di membra
discrepanti. Impossibile, il semplice
passo è montagna di conquista. Solo
da ferma si muove, internamente al
suo stare scavata, ganciata sghemba
alla scena nell'estasi interdetta del
gesto crocifisso. Nel calvario di scorci
di carne emaciata s'affaccia un
tramonto negato, l'ingorgo d'un
estuario di tregua. E si trascina, sul
posto si trascina, scarsa di frame, in
slow motion, implosa nell'anse del suo
sfinimento, eviscera il tempo in
scortico vivo d'affondo fino all'off della
potenza.
Non hai più guscio, sei sprotetta, dove
vai? Lumaca secca, senza bava, la tua
scia è agli sgoccioli. Che resta alla tua
fuga? La trascendenza nega l'azzurro
slargato... quale via può segnare il
diagramma di incastri che ti travaglia
ogni moto? Dove spezzare? Cadi su,
da brava, fatti cartoccio, carne di carta
accartocciata, tutta spiegazzata dal
pugno invisibile che ti afferra, grande
mano che attorno ti serra. A terra ora,
un piccione investito pari, a ornare di
disgrazia un guardrail polveroso,
accampata in questo sottotetto, col
rivolo di sangue d'una bandana rossa
che ti ruscella da sotto il petto
schiacciato. Povera creatura
martoriata, povera bestia. Di tua mano
t'appendi all'amo uncinato dell'unghia
come l'abbattuto al paranco, e l'umano
alla coscienza. Parassita della tua
stessa materia! Silhouette del deserto,
la tua ascella di sabbia si solleva e
confessa una duna di monili nel torso
ondulata.
Ora che sei, in fine nera, spenta nello
spento, noi che spettiamo al tuo
sbiadimento cadiamo con te nel
silenzio tuo, essenziale, asciutto,
inciso... e non so quale pazzo, tardivo,
forzato, si sia macchiato le mani d'un
applauso, il primo, il secondo, il terzo...
a profanare il sacro che ti dona morta
alla morte, tutto un vuoto si è gremito
di questa barbara semplificazione...
solo tacere vorremmo e invece giù, a
battere palmi... gesto da copione
d'una catena di montaggio.
su Fabrica [AAMOD]
Ore 19,30
Ingresso nella Sala Musica del Teatro Galli
Sala buia e circolare, spazio arioso, costolato legnoso del sottotetto che funge da volta dell’azione scenica
Paola Bianchi, soggetto di scena, amplifica il contatto simbolico fra gli elementi architettonici della scena con la sua performance. Il suo corpo si spezza nei movimenti dell’azione e produce un effetto simbiotico con l’ambiente. La drammaturgia del momento avviene di spalle, non è soggettivata, ed è ulteriormente stratificata attraverso uno schermo presente dietro all’artista. Le immagini che scorrono, a mo’ di scenografica videoartistica e sovrastorica, sono tratte da AAMOD, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, e mettono in scena rispettivamente:
• La visita medica di controllo di un lavoratore di fabbrica;
• Frammenti da rivolte studentesche e operaie nel contesto germinale del 1977. Il 1977 è l’anno dell’uccisione da parte delle forze dell’ordine di Giorgiana Masi, coinvolta in una manifestazione pacifica del Partito Radicale.
Il balletto meccanico di Paola Bianchi è sovrastruttura alla dimensione documentativo-simbolica della generazione del Settantasette. Tramite l’uccisione della Masi, trova inizio una crisi delle speranze generazionali radicali, direzionate alla difesa dei diritti umani e civili tramite azioni non violente. La scelta di questo momento, anticipatorio della parentesi violenta da parte delle Brigate Rosse nell’uccisione di Aldo Moro, è estremamente significativa da parte della Bianchi. La strumentalizzazione del messaggio di rivendicazione sindacale è stata consequenziale nel percorso di messa a frutto della storia nazionale.
Paola Bianchi rompe la meccanicità del suo corpo fagocitato dal lavoro industriale facendo il pugno chiuso e impregnando la sua performance con una sciarpa rossa. Successivamente, nel reportage video alle sue spalle, che testimonia il contrasto tra forze dell’ordine e movimenti pacifisti nel 1977, l’artista si accascia a terra e fa del simulacro politico e cromatico il vettore semiotico della sua fine (divenendo riferimento al sangue). Paola muore nella performance e il buio cala sulla scena.
La generazione cade nella strumentalizzazione del suo grido antisistemico e perde il suo corpo, nel tentativo di riappropriarsene e gestirne la prossemica in maniera recuperata. La carne-oggetto ha tentato di ri-soggettivarsi ma è caduta nel suo stesso ingranaggio.
Paola Bianchi, tuttavia, non rinuncia a pronunciare un messaggio di riaggregazione e potenziale speranza combattiva tramite la lettura di un comunicato stampa da parte degli operatori e delle operatrici artistico-teatrali, in cui dichiara lo stato di disastro culturale della penisola. Il suo testo di denuncia è fortemente critico contro le decisioni istituzionali in materia di nomine direzionali in ambito teatrale. Il suo è un distanziamento dallo status quo e una volontà di affermare un messaggio di recupero nelle arti performative, che risente di mancanza di welfare e precariato per gli operatori del settore e uniformazione della programmazione degli spettacoli. La volontà di “accendere altri fuochi”, ribadita da Paola Bianchi, localizza pacificamente le intenzioni radicali del suo messaggio, e situa consapevolmente nell’attimo il suo agire performativo. Tramite l’effimero corporeizzato della sua azione, Paola Bianchi produce una dialettica nella gestione e nel controllo del corpo, che non è mai portata a compiutezza. Il corpo è meccanico, dunque non transitivo, ritenta di rioccupare il suo messaggio umano attraverso l’ideologia radicale, tuttavia perisce e chiude il suo cerchio. Infine, la lettura del comunicato innalza lo sguardo e rompe l’environment situato della performance. La volta architettonica si spezza e si spera che il suo messaggio possa bruciare il teatro in quanto luogo di chiusura gerarchica, per aprirsi all’orizzontalità della volta celeste.
Da Paola Bianchi e Simona Bertozzi a Guarino & Romano, la danza al femminile di TDV 23
[...] “Brave” è un lungo abbraccio, è l’esser presenti l’una all’altra, è un flusso che inizia in coppia e prosegue con un movimento di Valentina che viene verso il pubblico, che si trova seduto sul palco attorno allo spazio scenico. Ma lo spettacolo è anche un rituale, e diventa una danza collettiva quando il pubblico viene invitato sulla scena a danzare, rigorosamente a terra.
[...] “Fabrica 16100 (Genova)”, un assolo di Paola Bianchi costruito dalle biografie di operaie che
sono state intervistate in questo originale progetto, che unisce testimonianze sul lavoro e danza. In questo caso l’operaia si chiama Luciana, ed è stata per dieci anni operaia al Tubettificio Ligure.
Ogni città una storia di operaie. Ogni replica un riadattamento della performance in base allo spazio.
In questo caso l’uscita di sicurezza della sala del Teatro India, che era la fabbrica Mira Lanza, è lo sfondo della scena più intensa dello spettacolo, quando si sente un bussare incessante senza risposta. Un’immagine che potrebbe rimandare a porte chiuse, diritti dei lavoratori negati… Come per “Brave”, anche “Fabrica” è un chiaro invito, da parte di Paola Bianchi, alla riflessione, ad avere uno sguardo critico e lucido.
[...]
BRAVE (di Paola Bianchi e Valentina Bravetti)
Cominciamo dalla fine, dal termine degli applausi, quando il remix disco di A far l’amore comincia tu si prende la scena inaugurando un piccolo dance floor pubblico. Qualcuno dalle prime file della platea situata su tre lati della scena si alza e raggiunge Paola Bianchi e Valentina Bravetti, poi altre e altri. Danzano in scena da seduti, a gambe incrociate, a terra, e in ginocchio, proprio come è costretta a fare Valentina Bravetti a causa della malattia. All’inizio le due performer sono come un corpo unico Paola Bianchi tiene Valentina Bravetti vicino a sé, si comincia dai movimenti più piccoli, dai polsi fino alle gambe, ma i ruoli si invertiranno successivamente. Bianchi lavora da anni su una performatività che ha un tratto creativo documentaristico, alcuni dei suoi progetti hanno come obiettivo l’archiviazione delle posture e dei gesti attraverso la loro descrizione: avere a che fare con il corpo e i gesti di qualcun altr*, nel caso di Brave in maniera diretta, tattile. È una danza ancorata al pavimento quella di Bianchi e Bravetti, eppure ha l’ambizione dell’elevazione ed è influenzata anche dalla Deposizione di Rosso Fiorentino. La prima fase è quasi di accudimento, ma senza pietismi: si muove con energia e precisione il corpo di Bianchi, insieme a quello di Bravetti, ma è pieno anche di umana simbiosi. Nella fase successiva il corpo di Bravetti può sperimentare la libertà del movimento, gli arti si muovono con lentezza e precisione ritmica; con un moto costante, ipnotico, la performer disegna un cerchio attorno allo spazio scenico. Intanto sul fondo l’altra scompone il movimento con dolorosa precisione. A Teatri di Vetro le comunità si ritrovano, si riconoscono, artiste e artisti assistono a vicenda a lavori e incontri di colleghi e colleghe. Sono giorni preziosi questi ricamati da Roberta Nicolai e dal suo gruppo a India (e prima al Teatro del Lido), che quest’anno hanno portato a Roma spettacoli che trovano con difficoltà delle repliche e una comunità di riferimento nella Capitale. Ciò vale anche per quest’opera importante di Bianchi e Bravetti, che grazie a un crowfunding ha inoltre visto sbocciare un’importante ricerca sull’audiodescrizione per le persone cieche.
Presenting a variety and abundance of the current Italian contemporary dance scene
Ariadne Mikou - 14 december 2023 springbackmagazine.com
[…] As a duet between Paola Bianchi and Valentina Bravetti, a dancer who suffers from paraneoplastic neurologic syndrome, Brave does not seek to beautify disability but rather to function as a journey towards finding, on the one hand, the hope and courage to face a disabling condition, and on the other, to experientially understand disability. In this relational process between the two performers, their bodies get entangled and disentangled in a horizontal choreographic evolution of mutual exchange of corporeal knowledge. Testing the absence of verticality and the angularity of the body along with exploring how control over the muscles works (or does not work) follow an attentive stare of Bianchi over Bravetti’s way of moving. What are the implications of the gaze as Bianchi looks at Bravetti’s body and we look at them? Is copying enough to empathise with a disabling condition? Bianchi seems to stand like a guardian whose distant gaze turns into a gentle touch for Bravetti to find emotional support, and for Bianchi to discover a new mode of performativity. Despite the artists’ request in programme notes and promotional material for Brave to be ‘seen up close, to plunge the spectator into the scene along with two bodies’, this introverted work was placed in a theatre with the audience at a conventional distance. In spite of this spatial issue, Brave enabled, in the context of NID, a much-needed encounter with disability. […]
FABRICA di Paola Bianchi al 25° Danae Festival – Un gesto politico ed estetico
Stella Civardi - 4 novembre 2023 birdmenmagazine.com Da sabato 21 ottobre fino al 5 novembre si tiene il Danae Festival, giunto alla sua 25^ edizione: dal 1999 al 2023, il percorso di crescita di una vita ormai adulta. Ogni traguardo favorisce uno sguardo circolare e comprensivo tra quello che è stato a quello che sarà: da qui la scelta di aprire il Festival con le nuove progettualità della performer Paola Bianchi, che aveva inaugurato la prima edizione del 1999. Se le parole custodiscono in sé il senso delle cose e dei luoghi, appare chiaro il legame tra le azioni coreografiche di FABRICA e lo Spazio Fattoria della Fabbrica del Vapore di Milano, dove avvengono. Fabrica – con una sola b come precisa Paola Bianchi – in latino significa “lavoro” e infatti le azioni di FABRICA rientrano nel progetto ELP | CORPI DEL LAVORO: un’indagine sui corpi trasformati dal lavoro fisico e intellettuale, salariato e a rischio economico. La performer, Paola Bianchi, durante un periodo di residenza artistica, è entrata in contatto con i lavoratori di diverse generazioni di fabbriche e aziende: i loro corpi sono un archivio fisico, hanno memorizzato una partitura di gesti – quella imposta dal lavoro ed eseguita ripetutamente in quella dimensione. A Danae Festival, in anteprima sono state portate le indagini svolte nelle città di Genova e Vicenza. FABRICA 16100 [Genova] si ispira alla storia di Luciana, operaia alla catena di montaggio del Tubettificio Ligure. La coreografia inizia con Paola Bianchi seduta su un alto sgabello: la performer lo sposta con movimenti scomposti e irrequieti che rimandano alle difficoltà pratiche della lavoratrice che agisce dentro la catena di montaggio. Questi gesti segmentati, che trasudano fatica e alienazione, si amplificano ma non sono mai imitazione della realtà lavorativa della fabbrica: appaiono al contrario destrutturati, privati della produttività tipica del lavoro volta a confezionare un prodotto. L’azione procede per montaggio: la realtà frammentata viene riassemblata, e così si ottiene la performance artistica, che non è rappresentazione della realtà ma un suo richiamo. Partito con l’intento di indagare l’industria tessile vicentina, lo studio si sposta sul settore della logistica in FABRICA 36100 [Vicenza]. Qui le pratiche di lavoro di ieri e di oggi si incontrano nella stessa cifra frammentaria dei gesti, che scompongono una realtà lavorativa in trasformazione e la restituiscono nella sua realtà precaria e non riconosciuta. La partitura sonora accompagna quella fisica: stralci di radiogiornali, di interviste, di dichiarazioni che insistono sul tema del lavoro accompagnano i movimenti della performer e sottolineano il conflitto tra una memoria fisica (che haincorporato posture stereotipate) e una creatività vitale che tenta di liberare il corpo da questi condizionamenti dettati dal lavoro quotidiano. La danza diventa gesto politico che può o sottomettersi al sistema vigente e persino opporre resistenza, mostrando un futuro possibile. Non stupisce che per Paola Bianchi lo spettacolo si faccia progetto: l’attenzione si focalizza sulla dimensione processuale che permette una prospettiva di indagine della realtà costantemente aperta all’ascolto delle sue componenti. La performance finale è solo uno dei tanti punti che costituiscono il disegno completo della sua progettualità che infatti l’artista si propone di portare avanti, presto forse anche con una tappa milanese, magari nell’ambito del nascente settore digitale. La danza di Paola Bianchi racchiude in sé un fattore micro politico che aspira al cambiamento: il corpo della performer incarna il portato personale dei lavoratori e delle lavoratrici che ha incontrato, così da esprimere questa tensione tra movimenti condizionati dalla routine lavorativa e gesto liberato della danza. L’insieme di queste micro resistenze – per dirla con le parole di De Certeau – del singolo porta a un cambiamento su scala collettiva. La danza diventa una pratica che interroga altre pratiche, senza la pretesa di imporre un ordine prestabilito, ma configurandosi come veicolo liberatore di senso: si fa carico del gesto produttivo, trasformandolo in gesto politico liberato e aperto a un futuro possibile. Uno dei futuri possibili è quello che ha preso vita alla Fabbrica del Vapore: una fabbrica di prodotti che diventa fabbrica di processi culturali.
La danza macabra di Danae XXV
Vincenzo Sardelli - 2 novembre 2023 klpteatro.it
[…] Ad avviare Danae 2023 è un’eterea Paola Bianchi, che aveva inaugurato la primissima edizione del 1999. Era il secolo scorso, e la performer, attiva ormai da 35 anni, riesce sempre a fornire attraverso il corpo una lettura lucidamente politica del nostro tempo.
Argentea nei capelli e nei costumi, dentro uno spazio asettico riempito solo di uno sgabello, Bianchi in “Fabrica / Corpi del lavoro” mette in scena una donna lavoratrice via via deformata, spersonalizzata, alienata e sacrificata. Siamo a Spazio Fattoria (Fabbrica del Vapore). La protagonista entra in scena con il suo codice femminile di forza, eleganza ed eros. È una sensualità subliminale inespressa, un anelito represso nell’isolamento. Questa figura marginale brancola ai lati della scena, reietta da un sistema produttivo autoreferenziale e spersonalizzante. La rivolta è vanificata da luci fredde e distanti, da musiche morbide, che presto cedono a rumori sordi fino a una serie di bip, come i singulti lugubri di una sala d’ospedale. Spalle al muro. Pressioni velleitarie. Non basta pestare i piedi o puntarli per ritrovare centralità nella storia. Lo sfarfallio finale delle luci ci consegna una figura esangue ed esanime, piegata e piagata, prodotto di scarto delle disumane sorti e regressive della storia. […]
Danze fuori dal mondo e danze fuori posto alla NID
[ … ] Nella programmazione, Paola Bianchi con Brave porta in scena (dopo 9 anni) Valentina Bravetti, anche se in uno spazio non adatto alle necessità drammaturgiche del lavoro, poiché si tratta di un vero e proprio tracciamento di una mappa a terra di tutta una nuova anatomia. La forza e l’intesa delle due interpreti hanno generato una partitura di posture del vivente capace però di superare ogni limite di visione e di esplodere nella percezione degli sguardi e dei cuori più disponibili. [ … ]
[ … ] Può un corpo danzare, anche se ferito? se colpito da una sindrome neurologica paraneoplastica? E se lo fa, come può farlo?
La risposta l'ho davanti agli occhi durante lo spettacolo BRAVE, al Teatro Studio, ci accomodiamo in sala attorno al palco, adornato da un tappeto rosso cui al centro troviamo le due danzatrici Valentina Bravetti (fondatrice con Claudio Angelini della compagnia di Città di Ebla) e Paola Bianchi(coreografa e danzatrice). Ci aspettano sedute, schiena contro schiena, la relazione di questi due corpi evidente sin da subito, corpi che si sorreggono, si sostengono, diventando inizialmente anche un unico corpo, condensando da movimenti stretti, viscerali.
BRAVE racconta il desiderio e la determinazione, la ricerca di posture del corpo sviscerate con ritmi e tensioni personali, che si sdoganano dal modello visivo ricorrente a cui siamo abituati del corpo coreografico. Una ricerca che assistiamo con partecipazione, quasi estenuante di forme non ordinarie, con una matrice molto organica, alle volte artefatta, alle volte quasi marionettistica.
Verso la fine le due performer si sollevano con l'aiuto di corde, un azione che cerca di sradicarle da quella terra con cui hanno danzato tutto il tempo, dimostrando più intensamente la loro fragilità ma allo stesso tempo il fatto che questi corpi possono sostenersi e influenzarsi l'uno sull'altro.
Quando lo spettacolo è finito (e dopo la pioggia di applausi) il pubblico viene invitato a ballare, la risposta è immediata e sentita, entrano nello spazio rosso e spontaneamente iniziano a ballare da seduti, una condivisione dello spazio e dello "stare" ancora per un momento nell'opera appena vissuta. [ … ]
Opera Prima: a Rovigo un festival semplice e sentito
Renzo Francabandera - giugno 2023 paneacquaculture.net
[ … ] Teatro Studio. Qui prende vita un’altra rappresentazione non meno coinvolgente ed emotivamente importante, Brave, una produzione Città di Ebla di e con Valentina Bravetti e Paola Bianchi con la coreografa che coinvolge nella sua creazione la danzatrice che ormai 20 anni fa fondò con Claudio Angelini Città di Ebla, poi fermata dal 2014 fino al 2021 nella sua pratica artistica da una sindrome neurologica paraneoplastica che ne ha minato l’autonomia. Lei e la Bianchi accolgono gli spettatori sul tappeto danza scuro all’interno del quale è iscritta una parabola tronca di colore rosso, su cui una serie di fari e sagomatori delimitano porzioni di spazio scenico abitati di volta in volta da gesti che, se in un primo momento raccontano dell’unione simbiotica fra le due interpreti, con l’andare della rappresentazione diventano una geografia di auto narrazione della rinascita.
All’inizio è davvero difficile distinguere il corpo ferito. Le due donne, sempre poggiate con il bacino per terra, si uniscono in posizioni ardite di fusione.
Dopo una prima parte connotata da questo schema coreografico, la Bianchi si porta al bordo della parabola per lasciare all’altra interprete di occupare lentamente ma con vigore lo spazio della scena, perlustrandolo, percorrendolo con lentezza, un po’ come aveva fatto Chiara Bersani con il suo Gentle Unicorn. Un incedere inesorabile pur nella difficoltà, di progresso e conquista passo dopo passo della propria identità, raccontata ai presenti disposti sui due lati lunghi della scena e sul lato corto frontale.
Solo nel finale, l’apparire sul lato destro di una sedia a rotelle e nello spazio scenico di maniglie tenute su con le carrucole, rivela la difficoltà motoria, il ruolo attivo di restituzione del movimento, di aiuto a fare. Potrebbe trattarsi di un rimando alla marionetta ma il gioco qui è proprio quello di lasciar comprendere come in un dialogo di questo genere non possa esistere chi muove i fili e chi viene agito: si tratta di uno scambio in cui ognuno impara, prende, raccoglie su di sé i limiti e le possibilità fornite dalla fisicità altrui. Il corpo sempre collegato a terra, il bacino costretto a non poter assumere la posizione eretta, portano ad un finale dello spettacolo inatteso, in cui, dopo gli applausi scroscianti, il pubblico viene invitato a danzare nello spazio performativo, e quello che succede è davvero incredibile perché gli spettatori, comprendendo istantaneamente la portata coraggiosa (di qui il rimando al titolo che gioca anche un po’ con il cognome della Bravetti) del lavoro, vanno subito a prendere posto all’interno della parabola rossa ma senza stare in piedi. Danzano anche loro seduti, frenetici, in un ambito di condivisione e di trasmissione viva e presente del messaggio lanciato dalla creazione. [ … ]
Festival Opera Prima 2023Maria Dolores Pesce - giugno 2023 dramma.it[ … ] È come fare un passo indietro, un cinematografico flash back nel profondo. Si parte da due corpi avviluppati, quasi da un gruppo marmoreo che ricorda il movimento congelato e pietrificato nella sua paradossale dinamicità delle sculture di Auguste Rodin e soprattutto, per la sua dolente tragicità, di Camille Claudel. Poi il movimento accenna a scongelarsi e i movimenti riprendono e sembrano man mano ricostruire un prima della vita che è anche il suo orizzonte futuro. I due corpi, come guidati da suoni e musica che strutturano un po' alla volta lo spazio che li circonda, si staccano e allontanano e la forza di gravità, che li tiene quasi incollati a quella terra incognita che è il palcoscenico, nulla sembra potere rispetto allo slancio di una vitalità che sembrava attenuata ma che l'arte può riaccendere. Sono due corpi diversi, uno dei quali gravato da una malattia che però qui sembra non esserci, dunque ci sono 'solo' due danzatrici in scena, non c'è handicap ma solo il senso del limite ineludibile, la coscienza della nostra finitezza, che ci deve accompagnare e in base al quale, e solo accettandolo come tale, possiamo costruire una esistenza profondamente sincera e, perché no, anche felice. È quest'ultimo corpo, quello di Valentina Bravetti, a diventare infatti sempre più protagonista, attirando come in un gorgo di antica emozione e di sapienza il nostro sguardo, mentre l'altro esce quasi con estetico pudore dalla scena circondata per tre lati dal pubblico. Una protagonista in cui si fanno evidenti, nei movimenti coreutici, le suggestioni del “Funambolo” di Jean Genet che deve stare sulla corda sfidando la morte, movimenti in cui risaltano le linee de “l'Impleurant” della Claudel, che però non implorava, come si crede, l'amante perduto bensì la vita che comunque la riempiva. Uno spettacolo sostenuto da una coerente coreografia, tecnicamente ineccepibile, capace di trasformare un po' alla volta la tecnica in sentimento e il sentimento in movimento empatico. Uno spettacolo profondo e pieno di fascino che nasce dopo molti anni di dialogo a distanza tra Paola Bianchi e una Valentina Bravetti ormai da tempo purtroppo lontana dal palcoscenico. E il titolo secondo me premia sia la bravura che il coraggio, nel termine letto all'inglese. [ … ]
Il sentimento del tempo al festival Opera Prima 23Vincenzo Sardelli - giugno 2023 klpteatro.it[ … ] C’è il tempo delle ferite. Come la sindrome neurologica paraneoplastica che ha sospeso per oltre sette anni il legame con la danza di Valentina Bravetti, fondatrice con Claudio Angelini della compagnia Città di Ebla. Al Teatro Studio troviamo la performer distesa su un tappeto rosso, e la sedia a rotelle ai margini dell’area.
C’è il tempo della guarigione. In “Brave”, concept e coreografia di Paola Bianchi in scena con la stessa Bravetti, assistiamo alla relazione di due corpi che si soccorrono e sorreggono. “Brave” significa abilità. Ma in inglese vuol dire anche coraggio. In italiano arcaico, evoca quel senso di spregiudicatezza selvatica che porta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo.
“Brave” è ethos, logos e pathos, cioè il nesso della comunicazione persuasiva secondo Aristotele. Il corpo si modifica, e noi possiamo farne materiale drammaturgico. Assistiamo a una compenetrazione di gesti e sguardi. Le due performer si sollevano con l’aiuto di corde, e danno lentamente armonia al loro battito d’ali spezzate. Annullano, con la bellezza dei loro corpi fragili e il balletto fluttuante delle loro mani agitate, l’illanguidirsi del tempo. E vincono la forza di gravità che cerca invano di inchiodarle a un tempo inerte. [ … ]
GENOVA, AL FESTIVAL DI AKROPOLIS, IL TEATRO DEL TEMPO SOSPESO
Walter Porcedda - 19 novembre 2022 glistatigenerali.com
[ ... ] C’è chi, altrettanto in modo radicale, ma sul territorio della danza, continua a disegnare percorsi avanzati di ricerca, giungendo a momenti di sperimentazione tanto raffinata quanto estrema. E’ il caso di Paola Bianchi, danzatrice e coreografa di talento che in modo solitario lavora da tempo a una ridefinizione puntigliosa dei rapporti coreografici tra spazio e corpo. Un corpo sempre più territorio privilegiato per questa artista che ha portato all’affinamento un “metodo che _ scrive la stessa Bianchi _ prevede “l’eliminazione del mio corpo di coreografa, come modello da seguire ed imitare” e ciò avviene attraverso la trasmissione via audio di archivi di posture generati da immagini incarnate precedentemente nel mio corpo”. Ciò è avvenuto negli anni addietro con il progetto “ELP” dove Bianchi, a partire dal 2018, ha dato vita con certosina diligenza alla definizione di una banca dati di memoria visiva coinvolgendo decine e decine di persone. Inizialmente sono immagini che si sono fermate nella retina di uomini e donne, diventati poi elementi di postura e coreografia che Paola Bianchi ha via via tradotto in archivi audio. Sono diventate queste, poi, delle tracce audio utilizzate la prima volta nello spettacolo “Other OtherNess” dove la coreografa ha consegnato alla danzatrice Barbara Carulli le tracce in cui veniva descritta la postura da utilizzare volta per volta fino alla composizione di una partitura. In “Assimilia”, lo spettacolo che Paola Bianchi ha portato in scena a Genova si va oltre. La danzatrice infatti indossa un paio di cuffiette da dove arrivano gli ordini delle posture. In pratica si danza al buio senza una linea coreografica. Che vuol dire anche assenza di visione dello spazio. Si sa dove si comincia ma non dove navigherà il corpo.
Paola Bianchi, per l’occasione indossa un ardito ed elegante abito lungo e nero (disegnato e cucito da lei stessa) che sembra una veste presa in prestito a un samurai. Inizia la danza a contatto con il terreno descrivendo volute e spostamenti alla cieca e in diagonale. Non avrà una coreografia da seguire, ma quel suo muoversi è comunque più forte di ogni aspettativa.Trasmette energia e forza. I movimenti spesso improvvisi cancellano gli sviluppi dell’azione precedente per metter in pista qualcosa di inedito. E imprevisto. E’ un danzare alla cieca che sottende furia, voglia di rompere gli argini e sovvertire l’ordine. La segue, quasi con discrezione la colonna sonora del giovane compositore Stefano Murgia, un impasto di suoni elettronici non invasivi, quasi un commento sotto pelle per una danza che d’improvviso apre spazi inattesi, oppure spezza il ritmo di un movimento congelandolo per una manciata di secondi. Una danza in solitario che cita quella dell’uomo contemporaneo sempre più solo davanti al pericolo di una catastrofe imminente. Bianchi danza comunque con rabbia, eppure il suo corpo esprime armonia mostrando sempre una presenza autorevole e intrigante, fatta di eros e teatralità non comuni, in grado ogni volta di provocare passione e commuovere.
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ASSIMILIA. Dal dispositivo ELP di Paola Bianchi una nuova fase di indagine per corpi nel presente
ASSIMILIA è l’ultimo lavoro del complesso progetto ELP al quale Paola Bianchi lavora dal 2018 e che porta avanti le istanze di quella ricerca coreografica incentrata sul corpo politico, emergenza di pratica artistica e di vita espressa nella radicale scelta di indipendenza artistica e prassi creativa, di cui è possibile coglierne livelli e seguirne gli sviluppi nel volume Paola Bianchi Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento a cura di S. Bottiroli e S. Parlagreco, Editoria&Spettacolo, Spoleto 2014 e nel blog http://paolabianchi-it.blogspot.com/
Nel caso di ELP il movente di fondo può essere rintracciato già nello sviluppo del titolo visto che ELP è l’acronimo di Ethos Logos e Pathos e che, se non viene male interpretata la poetica di Bianchi, rimanda prima di tutto e sempre a una presa di posizione sull’essere artista come scelta umana, di relazione e politica. Un modo di essere che si pone sullo sfondo del rapporto tra individuo e società, relazione tra nuda vita, singolarità, pathos, forza emotiva – che si esprime nel corpo – e comunicazione, sociale, norma, ethos, logos, linguaggio.
I livelli dell’esperienza su cui si interroga Paola Bianchi sono da sempre quelli dei confini entro i quali la libertà del corpo si può esprimere – di cui la danza è sì veicolo privilegiato d’indagine ma che riguarda tutte e tutti come fatto biopolitico – e per questo il suo campo di riflessione comprende sia le dimensioni fisiche (lo spazio), sia quelle simboliche che riguardano prima di tutto le forme del potere.
Ma dire centralità del corpo – e corpo politico che, vale la pena ribadirlo, è parola chiave del progetto artistico di Paola Bianchi – significa anche porre un’attenzione problematica alla relazione del corpo con il linguaggio e con i linguaggi.
In linea con quel tipo di sensibilità che intorno agli anni Novanta ha consolidato il campo degli studi sulla cultura visuale e che ha prodotto una svolta decisiva nell’identificare i territori dell’immagine e degli immaginari come contesti significativi dell’esperienza, il progetto ELP lavora sul piano di un primo innesco – trigger – drammaturgico sulla raccolta di immagini provenienti da un gruppo di persone invitate a condividere la propria “memoria retinica” (la sociologia visuale chiamerebbe questo processo di raccolta: native image making) così da costruire un repertorio iconografico e iconico condiviso, cioè basato su immagini appartenenti all’immaginario collettivo (in una prima fase occidentale ma successivamente esteso ad alcune persone con background migratorio che vivono in Italia).
Attraverso l’approfondimento dell’analisi – passato soprattutto ma non soltanto attraverso lo scavo analitico di Georges Didi-Huberman e degli studi su Bacon (altra “storica” fonte di indagine di Paola) di Gilles Deleuze – le immagini ricevute sono state elaborate o meglio tradotte nelle posture/figure su cui sono composte le partiture coreografiche.
Non, dunque, rappresentazione didascalica e riconoscibile delle icone del nostro tempo – che restano deposito simbolico non verbalizzabile benché comunicabile – ma piuttosto segni, frammenti posturali, movimenti del corpo, figure appunto che diventano per Paola un pretesto per una sfida politica potente all’autorialità coreografica intesa come processo di trasmissione per imitazione. Cerchiamo di capire come.
A partire dal primo solo ENERGHEIA, costruito attraverso le figure emergenti dall’immaginario occidentale, e successivamente dal solo O_N – elaborato a sua volta dalla traduzione delle immagini non occidentali – passando attraverso i laboratori ESTI, con non professionisti, Paola Bianchi ha messo a punto il processo di trasmissione coreografica basato sulla creazione di archivi di posture descritte verbalmente, registrate e consegnate in file audio a danzatrici e danzatori da cui sono nati lo spettacolo collettivo EKPHRASIS e il solo con Barbara Carulli Other OtherNess. Si tratta di due lavori particolarmente potenti, frutto del lavoro e della relazione fra il processo di incarnazione della parola descrittiva (la coreografia) da parte delle/dei performer e il lavoro in sala con la coreografa, fra enazione, cioè della produzione autonoma del proprio movimento, e co-enazione, cioè dello scambio, confronto relazione durante le prove.
Tutto questo per dire che sia nei laboratori, sia nella realizzazione degli spettacoli – così come nelle altre fasi del progetto, anche in quelle ancora in lavorazione su cui si avrà modo di tornare – la trasmissione riguarda il segnale-parola che diventa informazione solo nel momento in cui viene incarnato da chi lo esegue. Su questa base, quello che va tenuto bene presente, è che il principio creativo, l’idea coreografica, il progetto artistico dell’autrice che l’ha costruito non è espunto. Paola Bianchi non si sottrae dalla sua creazione coreografica. Il processo è più radicale: la parola coreografica che si va a incarnare diventa di chi la esegue il che vuol dire rinunciare all’imitazione del corpo del maestro, vuol dire rinunciare alla logica della trasmissione del sapere come principio gerarchico, spesso confuso con la complementarità che invece va mantenuta. Non dunque negazione dell’autorialità, delle distinzioni interne, delle complementarità, delle differenze ma della gerarchia del potere.
Il lavoro sulla parola, la traduzione dell’immagine in parola, è poi particolarmente interessante perché rimanda al dibattito che anima ancora la legittimità scientifica delle immagini e il paradosso iconoclastico dell’Occidente, e probabilmente non solo. Tanto che sono molti e diversi gli immaginari che un lavoro come ELP intercetta, come si diceva, trovando spazio anche nelle immagini che hanno portato alla fase intitolata CORPI DELLA PROTESTA e alla realizzazione della durational performance NoPolis.
Ed è nel contesto di ricerca che origina e procede nella connessione fra corpo, potere e linguaggio per indagare un proprio modo di «stare e agire nel mondo» indistinto da un proprio «essere nella scena» che si è innestata la pandemia – con il suo portato di criticità – per “costringere” verso un ulteriore livello di indagine la poetica del corpo da cui nasce il nuovo solo ASSIMILIA.
Concentrato nel presente ASSIMILIA lavora sul senso di quelle cose simili che ci tengono insieme fra libertà e costrizione.
Un corpo che non è più libero di muoversi nello spazio [e mentre noi lo sperimentiamo per questioni legate alla salute pubblica politicamente gestite maldestramente, intorno a noi le tragedie dei corpi si consumano senza che si levino grandi proteste per la libertà mi pare] – in ASSIMILIA è di nuovo quello di Paola Bianchi che esegue gli archivi di posture ottenuti attraverso la registrazione della descrizione delle immagini ascoltandole ogni volta dagli auricolari indossati in scena e che sente solo lei mentre si muove dentro uno spazio-scatola-laboratorio costruito dalle luci di Paolo Pollo Rodighiero e dallo straniante ambiente sonoro di Stefano Murgia costretta da una gonna lunga e pesante.
L’impalcatura visiva che compone la drammaturgia della messa in scena è un aspetto saliente del lavoro di Bianchi che cura personalmente il design e la realizzazione del costume di scena. Il pesante tessuto della gonna lunga, che la trattiene e rende più faticosi i movimenti, diventa parte della coreografia, dimensione iconografica, drappeggio statuario, ostacolo sempre superato da una gamba, da un piede, fino a quando viene sollevata e agganciata in vita per lasciare finalmente scorrere meglio il movimento.
Su un impianto coreografico mirabile – dove l’esperienza di danzatrice di Paola Bianchi e la consapevolezza del suo gesto raggiungono picchi elevatissimi – ASSIMILIA aggiunge un ulteriore tassello alla dimensione drammaturgica di ELP e alla messa a punto del dispositivo di ricerca sulla trasmissione. Infatti, se dal lato più riflessivo, il lavoro ci parla del processo dell’etero-direzione, che per le teorie dell’informazione è anche la strategia più efficace della trasmissione, lo spettacolo ci dice anche qualcos’altro.
Attraverso l’auto-esposizione alla parola descrittiva della coreografia l’attenzione si sposta verso la consapevolezza dell’etero-direzione ma anche, e dal punto di vista del meccanismo creativo, al processo di auto-etero-direzione che è la condizione paradossale e particolarmente interessante che scopriamo quando verso la fine sentiamo la voce di Paola che le indica i movimenti da eseguire. Il disvelamento del dispositivo diventa così un ulteriore elemento con cui Paola Bianchi mantiene il patto spettatoriale, ovvero la proposta di una relazione con il pubblico che non è mai scontata, didascalica e che non accetta la finzione come formula narrativa.
OTHER OTHERNESS
Lucia Medri - dicembre 2021 -
Cordelia teatroecritica.net
Il progetto ELP | altre memorie con il quale Paola Bianchi ha vinto nel 2020 il Premio Rete Critica trova una parziale – rispetto alla totalità – incorporazione in Other OtherNess creazione danzata dalla giovane Barbara Carulli, andata in scena durante Teatri di Vetro. Nello spazio buio, le luci di Rodighiero fendono la penombra in tagli obliqui, tra i quali si muove la nuvola ramata del tutù indossato da Carulli, unica veste oltre il copripetto color carne. La fisicità esile ma vigorosa della danzatrice, che già possiede nonostante la giovane età una propria caratura interpretativa, meccanicamente sedimenta le sequenze delle posture collettive trasmesse via audio da Bianchi. Vi è un incontro di frequenze, sonore (musiche originali di Fabrizio Modonese Palumbo) e corporee, sintetizzate in una sequenza di movimenti “alternati”, allo stesso tempo sghembi e armonici, contorti e distesi, rigidi e scomposti, impressionabili nella memoria individuale come una successione di fotografie, a ricordare tutte le immagini, storiche, fissate nella memoria di coloro che – nelle prime fasi di ricerca di ELP – erano stati chiamati a partecipare alla raccolta dell’«archivio di corpi». Quell’”altra alterità” del titolo diventa diapositiva del dialogo che ha legato entrambe nel processo, costruito attraverso la trasmissione di archivi di posture da parte della coreografa all’interprete e concentrato sulla «dichiarazione di esistenza» del corpo e non sull’imitazione di un insegnamento.
Visto a Teatro India, Roma – Crediti: Concept e coreografia Paola Bianchi; creato e danzato da Barbara Carulli; musiche originali Fabrizio Modonese Palumbo; disegno luci Paolo Pollo Rodighiero
BIANCHI, D’INTINO, DAS DING: TRE CRONACHE DI DANZA DA TEATRI DI VETRO
[ … ] uno spazio doppiamente delimitato, doppiamente disegnato al di là del mondo reale: è quello di “Other Otherness” di Paola Bianchi, in scena Barbara Carulli.
Il progetto, nato per la scorsa edizione del festival, è ora in scena in una sala già immersa nel buio all’ingresso del pubblico, il palco bagnato dalle luci “parlanti”, millimetriche, squisite di Paolo Pollo Rodighiero, disposte sulle americane con poetica libertà, verdi per la superficie del palco, ma dettagliatamente color carne, la stessa carne del busto nudo di Carulli, del suo tutù di tulle, e sorprendenti in una doppia batteria di Domino a terra, squintate e contrastanti.
Doppiamente disegnato, si diceva: perché sul palco è segnato un quadrilatero irregolare, dal quale la danzatrice non uscirà mai.
Sotto un suono indistinto, un cupo avvolgersi di qualcosa su sé stessa, Carulli cade, si rialza, vortica, cade, ricomincia, con una levità che non sa di pena corporale, ma quasi di condanna ultraterrena – non c’è dolore fisico, c’è solo un tempo imprecisato, forse infinito, da passare in questo tormento, in questo corpo che, come si vedrà, sembra il vero terreno della contesa.Il tormento di un’anima prigioniera: questa è l’idea che si fa strada nell’occhio dello spettatore, puntato verso la condanna nel quadrilatero, ma soprattutto sulla qualità del gesto della danzatrice che, seppur informata solo attraverso indicazioni verbali dalla coreografa (nel solco della sua lunga ricerca sulla parola per la danza, sulla sottrazione del corpo del maestro per il danzatore), è segnata dallo stigma del raccogliersi e scattare, dello scrollarsi di dosso una tensione, una linea di movimento, attraverso improvvise rivoluzioni di verso. Quel movimento che tante volte abbiamo conosciuto incorporato proprio in Paola Bianchi.
Mentre le luci hanno continue, ammalianti mutazioni, che riescono a rendere avvertibile la doppia natura di spazio e corpo, quest’ultimo subisce la tentazione dell’uscita dal quadrilatero attraverso continui passaggi tra concavità e convessità, tra lo spingere il movimento e l’esserne tirato, tra il richiamarlo a sé e l’esserne respinto, e poi a tradimento posseduto, in una lotta straziante ma condotta con la levità di un duello in punta di fioretto.
Ora uno stretto spiraglio di luce si sostituisce al quadrilatero, e l’esistenza del corpo e del movimento è nuovamente ridotta, limitata a quella porzione di palco, senza forzature nella partitura gestuale, con una semplice – ma non per questo meno drammatica – ridefinizione dei dati spaziali. Poi torna ad ampliarsi la luce, e il suono (di Fabrizio Modonese Palumbo) emerge dal fondo del lavoro, facendosi materia, spazializzandosi in un’oscillazione destra-sinistra sempre più evidente, così come si concretizza la sua natura segmentandosi, facendosi grana sempre più agglomerata, fino a sembrare veramente come un rombo di motore, ora di qua, ora di là, ora di qua – buio.
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Testimonianze ricerca azioni 2021: essere e (è) divenire
[ … ] In Other Otherness Barbara Carulli danza una richiesta di aiuto e di ascolto, prima di tutto a sé stessa, per la sua fragilità ribelle. È un animale ferito che non si arrende, che cerca un volo anche senza ali, un piacere troppo a lungo negato.
Costruito sullo spazio furente e instabile de La zattera della Medusa di Théodore Géricault, il solo nasce dalla trasmissione via audio da parte di Paola Bianchi delle descrizioni di alcune posture presenti nel suo O_N, parte del progetto ELP | altre memorie, anch’esso in cartellone al Festival.
Perciò, la costruzione del lavoro ha escluso la presenza in sala prove della coreografa come modello da seguire e imitare. L’obiettivo di una simile trasmissione è trovare il modo di essere in scena, più che fare, o peggio rifare. È la stessa Bianchi a rimarcarlo con forza nel notevole film documentario su di lei e con lei appartenente al ciclo La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro diretto da Tafuri e Beronio e prodotto da Teatro Akropolis e AkropolisLibri (gli altri due realizzati finora sono dedicati a Massimiliano Civica e a Carlo Sini).
Una gonna di tulle, due ginocchiere, una striscia di nastro sui capezzoli, Carulli si rivela un taglio di luce gettato su un viaggio distorto, elettrificato. Ci guarda di traverso e poi si ascolta guardarci, mentre risuona l’incombere come di elicottero sulla sua testa e sulle nostre.
Other Otherness è un raccoglimento a scavarsi dentro, un rannicchiamento che cova una rivolta. E quando esplode, niente si salva dal fuoco liberatorio dello scontro.
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NESSUN AMICO AL TRAMONTO
Viviamo un mondo crepuscolare. Nella guerra tutt’altro che fredda tra passato e futuro ritratta da Christopher Nolan in Tenet, la frase di Walt Whitman torna e ritorna come un preghiera sussurrata nel momento del bisogno. A queste parole si risponde: Nessun amico al tramonto. Due frasi, due parentesi a racchiudere il nostro presente compresso tra uno sciagurato passato e un futuro quanto mai incerto eppur pronto a reclamare a gran voce il diritto di esistere. Due aforismi difficili da ignorare, e pronti a rimbalzare molesti come le palline di Blumfeld.
In questi giorni, nel visionare alcune opere, le due asserzioni mi tornavano alla mente prepotenti come bulletti di quartiere e nel dare ascolto alla loro insistenza, ho cominciato a sospettar una loro fascinante capacità di rappresentare uno stato d’animo sospeso tra il “non più” e il “non ancora” in cui siamo imbrigliati. Il mondo, non solo quello dello spettacolo, vive intrappolato come insetto sulla ragnatela in un limbo tra due universi, un interregno abitato da ombre, fantasmi, luci soffuse, bagliori taglienti. E ora, proprio in questo attimo di fragilità, il teatro ha scoperto di non avere nessun amico al tramonto.
Vorrei quindi parlare di una serie di opere, lavori intensi e sapienti, capaci di sussurrare parole al nostro tempo, nonostante il confinamento digitale per cui non sono nate. Tre lanterne nel buio, tre mormorii raccolti, nel dolore lievi, tre domande tra il “non più” e il “non ancora”.
[ … ] un trittico: ON, Other Otherness, NoPolis di Paola Bianchi. Un segno radicale, un corpo che da sempre viene inteso come politico, orfano oggi di quell’agorà che lo rende tale, obbligato a offrirsi non alla comunità ma alla community. Le tessiture musicali di Fabrizio Modonese Palumbo, tra loop morbidi e non ossessivi che ricordano William Basinsky e e flussi di suono duro e rumore bianco alla Fennezs di Hotel Paral.lel, modulano onde diverse di un mare da cui emergono suoni concreti come relitti di un mondo che fu, una musica sempre segno e non un tappeto sonoro, una trama su cui si intreccia il danzare in un unione da cui sorge ed emerge il disegno per l’occhio. Una danza nervosa, faticosa, costretta a terra e circondata dal buio in un cerchio di luce tenue (a volte persino oscurata come in piccola eclissi), o sotto una pioggia leggera e circoscritta di luce, dentro un quadrato con un vago sentore di prigione. L’elevarsi è sforzo mai leggero, è lotta contro ciò che ci rivolge al basso. Il buio non è accogliente ma muro impenetrabile. Tre brevi coreografie in cui i corpi intessono un movimento da cui affiorano altri residui, rovine di un mondo rimasto indietro ma ancora piene di un fascino e di un senso che sembra quasi sfuggirci: un dito medio, un pugno alzato verso il cielo, una ballerina di Degas. Gesti politici, di rivolta, di insulto, culturali, iconici, mai neutri. Hanno la forza disperata dei sopravvissuti.
Tre opere in un mondo crepuscolare, quello che abitiamo senza amici al tramonto e in cui, come in Tenet, lo specchio si è rotto prima dell’incidente. Opere che ci parlano di un mondo trascorso ma presente, come le poesie di Rutilio Namaziano erano un amaro osservare il calar del sole su un impero non più tale ma non pronto a prenderne atto. Non c’era e non c’è ancora un futuro. Dobbiamo farlo emergere, dobbiamo tutti sforzarci di farlo affiorare da una notte avvilente e nebbiosa. Per ora c’è spazio per canti notturni, quelli che si rivolgono agli spiriti e alle ombre, canti di sfida e di lotta. Come Ulisse nell’Ade dobbiamo lottare per tener lontane le teste vuote dei morti facendo avvicinare solo quelli pronti a fornire uno sguardo su un futuro che ancora non è, ma sicuramente sarà se sapremo inventarlo.
"Coprifuoco!" E' nato il teatro digitale
[...] E’ il caso ad esempio di “O_N” della coreografa Paola Bianchi che ha messo in scena come spettacolo in video un potente atto unico dalla trama ben innestata nel flusso di ricerca delle sue opere più recenti, vedi lo straordinario “Energheia” , ancorandolo al progetto ELP (la danzatrice sta lavorando sulla memoria visiva su persone con background migratorio in Italia, come avvenne nel primo step di “Energheia” con cui ha costituito un primo importante archivio “retinico”). Incalzata dai suoni e dalle musiche del musicista creativo, inventore di scenografie sonore, Fabrizio Modenese Palumbo, e dal preciso disegno luci di Paolo Pollo Rodighiero, Bianchi, viene inizialmente incapsulata in uno stretto cono di luce dentro il quale ingaggia una lotta nervosa per varcare l’oscurità. Concentrando le azioni in una gestualità minima fatta di impercettibili scarti emozionali, la performer, ripresa in primissimi piani e campi medio lunghi, alterna tentativi di fuga in avanti a pose plastiche di elegante armonia che un attimo successivo, con un velocissimi strappi, vanno in frantumi. Sono le cento memorie di un corpo le cui invisibili cicatrici riemergono da una lotta aspra, giocata sul filo. Una sfida continua e senza soste con il corpo proteso ad offrire e chiedere amore mentre le braccia si rinchiudono lentamente come petali di un fiore al tramonto. Corpo al suolo che si dibatte in un cerchio, prigioniero come un uccello in gabbia che cerca la fuga. Rabbia, dolore, energia sul punto di deflagrare: e voglia di libertà.
Paola Bianchi, oltre a “O_N” ha portato anche il disegno di “Other OtherNess” primo movimento danzato e restituito in video da Barbara Carulli e l’installazione “NoPolis” spazio visivo e acustico “in cui la polis classicamente definita come sfera politica, perde la sua essenza”: abbigliata di rosso, all’interno di un quadrato, Bianchi entra progressivamente in una dimensione rarefatta, mentre i rumori di traffico urbano vengono sostituiti da una musica ovattata segnata da bassi profondi, in sintonia coi movimenti della danzatrice, un corpo liquido in trance. [...]
O_N DI PAOLA BIANCHI, O CIÒ CHE DIVENTA. APPUNTI MINIMI DI TEATRO RIPRESO
Se il teatro di persona è ora scomparso, dato che impossibile è la comunità dei corpi, perché mai dovrebbe continuare a esistere la critica teatrale nel senso tradizionale di sguardo e analisi?
Certo, la sua crisi non è cosa di oggi. Ma ora, con l’oggetto-spettacolo privato del suo repertorio di significanti e strappato dalla sua teca statutaria, per quanto febbrili e inquieti possano esser stati, ci si trova tra le mani un prodotto che rotola come su un nastro trasportatore. Parte dal complesso laboratorio dell’artista e arriva a quello del comunicatore (una sorta di nuovo
dramaturg, che deciderà in quale forma renderlo fruibile, nel caso odierno si tratta di
Roberta Nicolai, come dicevamo
qui). Passa poi a chi materialmente lo tradurrà nel nuovo linguaggio, video,
streaming (e oggi è
Michele Cinque di Lazy Film con la sua
troupe) e finisce nel luogo-non-luogo impossibile da divinare: la cucina, lo studio, il sedile del passeggero della macchina in movimento di chi lo guarderà.
È anch’esso un laboratorio, per quanto assai sporco, in cui imprevedibili ingredienti si mescolano al materiale in provetta: il suono di un clacson, un figlio che rovescia il piatto della minestra, la batteria che si scarica, lo sguardo del tuo compagno che si annoia, e la colpa è tua.
In quale tra questi laboratori deve porsi il critico?
Abbiamo provato a entrare nel terzo. Nella settimana in cui
Teatri di Vetro 2020 va in
streaming differito su YouTube, il Teatro India è diventato un set – cioè sembra essere tornato a essere fabbrica. Silenzioso il cortile esterno, lunghissimi e deserti i corridoi, ovattate ma febbrili, nelle sale, le parole e i movimenti: fuori la città è contratta in un crampo di traffico ininterrotto; dentro, il corpo di
Paola Bianchi, seduta con la testa nelle ginocchia, è incapsulato in un cono di luce.
Attorno a esso, come attorno a una scultura che gli installatori vadano collocando nella giusta angolazione, occhi attenti, sciamano direttore della fotografia, regista, operatori. Più distaccato, significativamente, il gruppo dei teatranti, e il tavolo della regia audio-luci dal vivo.
Oggi si lavora su “O_N”, uno dei due contributi di Bianchi alla 14^ edizione del festival romano: il suo lungo progetto “ELP” si incontra ora con posture provenienti da culture differenti. La mattina è stato fatto il montaggio vero e proprio (vedi, anche il lessico si sdoppia?, montaggio teatrale, si intende, non montaggio video), i puntamenti; nel pomeriggio, dopo una breve prova tecnica, si gira.
Le camere sono quattro, due fisse, una steadycam e una dall’alto, sull’americana, a piombo nell’occhio di quel cono di luce. (Guarda quel polpaccio nella Canon: c’è più magenta che nella Sony. Abbassalo).
La regia sarà live, niente montaggi in postproduzione, ma un indirizzo di massima occorre darlo.
Ci si chiede: quanto usare la steady, la camera mobile. Il corpo di Bianchi si muoverà nello spazio di un cerchio dal raggio di un paio di metri. La fruizione pensata per il teatro è frontale, ma la coreografia si svolgerà in un quasi costante moto di avvitamento/svitamento su un asse. È possibile restituire questo con una camera fissa? Sì, qualcuno pensa; altri dicono di no, è necessario smuovere il quadro, restituirgli una spettacolarità più evidente, «più interessante», andare sui dettagli, staccarlo con più evidenza dal fondo nero, e quant’è nero il nero di uno schermo, quant’è anzi diversa la nozione di “nero” da quella di “buio”, dove la prima è presenza, la seconda assenza.
La steady deve muoversi, bene, ma lentamente, per carità: che paura che fa l’idea di una vertigine mucciniana!
Questa piccola querelle ci ricorda due problemi: il primo, quello dello spettatore.
Quanto può essere utile la conservazione della staticità della posizione dello spettatore in una traduzione video? Se essa richiede una rimessa in discussione del punto di vista, ciò corrisponde a ritoccare radicalmente lo statuto del ricevente, interviene anche nel messaggio.
Il secondo problema è il ritmo: come mantenere lo stesso ritmo di una coreografia nella sua ripresa? In che modo i movimenti di macchina e gli stacchi da una camera all’altra interferiscono nel dispiegarsi nel tempo della rappresentazione?
“O_N”, poi, non ha un rapporto meramente ritmico con la traccia musicale. Dopo una voce e un breve silenzio, lo spettacolo lavora sopra un suono continuo ma internamente ribattente e saturato, che infine muta in una sorta di gracchio da contatore Geiger.
È una natura di non-scansione che impedisce alla regia di appigliarvisi come a un filo conduttore.
L’audio, poi: i volumi. Se si possono stabilire con precisione e a priori nel caso del live teatrale, come è possibile riportarli ai device di ciascuno spettatore domestico? E, soprattutto, come si può suggerire il rapporto di equilibrio che devono avere nel rapporto con la parte visiva?
Basti pensare al precedente lavoro di Paola Bianchi, “Energheia”, visto a
Teatri di Vetro 2019: sarebbe stato impossibile convogliare lo spaventoso muro sonoro delle chitarre di
Fabrizio Modonese Palumbo, che letteralmente schiacciava lo spettatore.
La questione è sempre la stessa: che si parli di immagine, che si parli di suono, in quali termini è possibile mantenersi al di qua del crinale che separa il teatro dal cinema, i loro due linguaggi, inventare un ibrido valido?
Ma intanto, dopo le brevi sigarette della pausa, la ripresa parte e si ferma; qualcuno canta in una sala attigua; poi passa un motorino incredibilmente vicino (ma dove?), e un nutrito mazzo di chiavi viene inopinatamente manipolato, da qualche parte. Via di nuovo, è quella buona.
Il piccolo corpo di Paola Bianchi esordisce con improvvisa dinamicità sotto il suo cono di luce, quasi facendo dimenticare quel suo segno cinetico tipico, inconfondibile, di vibrazione interna. Ma poi, a un minimo cambio di luce (il cerchio si sfuma) lo riconosciamo: qualcosa che sembra un dissidio tra volontà, forma e direzione rompe il corpo, ne interrompe la continuità…
Qui, proprio qui, occorre fermarsi.
Se lo spettacolo è diventato quest’altra cosa, quest’altro ibrido ancora irrisolto, forse la voce più adatta a renderne conto era quella del racconto. L’analisi deve arrestarsi precisamente alle soglie della fruizione.
Nella vostra cucina, nel vostro salotto, con il brillio del vostro albero di Natale e il TG1 altissimo nell’appartamento dei vicini duri d’orecchio, vedetelo voi.
L’attrito del movimento: Paola Bianchi e Teatro Akropolis [ Ipercorpo #3 ]
Francesco Brusa - 28/09/2020 altrevelocita.it
Non esiste attimo privo di tensione in O_N. Da sotto i capelli che le andranno a coprire il viso per tutta la rappresentazione, Paola Bianchi ci scruta con ancora maggiore determinazione di quella che avrebbe se i suoi occhi fossero invece visibili, non “schermati” dalle ciocche bianche. È come se fossimo portati a far convergere l’intensità che leggiamo nei movimenti del corpo verso lo sguardo della danzatrice, verso una sua “intenzionalità emotiva” che, però, nei fatti non ci è dato di leggere: «Passare dall’informe all’informe» è d’altronde la locuzione che la stessa coreografa e danzatrice torinese (ma attiva in Romagna da decenni) utilizza per sintetizzare la traiettoria del proprio lavoro. Vale a dire: non c’è volontà di lasciare traccia intellegibile, ma solo un passaggio da stato indefinito a un altro stato indefinito, concentrandosi semplicemente sul percorso li collega.
Eppure l’anteprima andata in scena nella terza giornata del festival Ipercorpo, se da una parte non offre alcuna frontalità visiva (non vediamo appunto mai in faccia la danzatrice, che peraltro continua a girare percorrendo un ampio cerchio sulla scena), dall’altra è pur sempre una proposta estremamente rifinita, coerente in se stessa. Possiede una forma, magari non come disegno e volontà drammaturgica che eccede il corpo della performer ma nello sviluppo intrinseco dei suoi movimenti, nella regolare sovrapponibilità di ciascun momento con ciascun altro. O_N, cioè, sembra rispondere a un principio compositivo (che la peculiare poetica di Paola Bianchi cerca di spingere nella carne anziché in un pensiero esterno) ben preciso: la negazione radicale di ogni smussatura o fluidità, per modulare il gesto in una maniera che sia il più possibile “quadrata”, rettilinea. Il corpo della danzatrice si piega e ripiega come fosse un origami, al massimo si “accartoccia” su se stesso ma mai e poi mai si sviluppa entro delle curve o delle traiettorie “dolci”. Tutto è sforzo, sebbene ponderato e omogeneo. O meglio, tutto è “contrasto”, frizione con la gravità, è attrito (concetto quest’ultimo centrale nella pratica della coreografa).
Le uniche due linee circolari sono date da un fascio di luce che, per una breve parte dello spettacolo, disegna appunto un cerchio per terra e dallo spostamento della danzatrice, che si muove in modo circolare come fosse su dei binari. Segni a indicare che, tutto sommato, (r)esistono delle strutture di riferimento, schematismi percettivi: non c’è nessuno sviluppo propriamente narrativo, ma l’orbitare continuo attorno a un centro restituisce comunque l’idea del tempo che passa, di uno sfondo immobile su cui la performance scorre.
Si tratta di una proposta molto articolata al suo interno, estremamente definita e lineare. La performance di Paola Bianchi giunge dal punto iniziale a quello finale come se stessimo attraversando l’ingranaggio di un orologio, che cambia in continuazione la qualità e le caratteristiche del proprio battito ma è che è costante nello scandire un preciso ritmo di progressione. Anche la musica, pur sviluppandosi in un andirivieni di accrescimento e scioglimento della tensione, permane tutto sommato sui medesimi timbri e sulle medesime sonorità, che a tratti sembrano richiamare lo scricchiolio degli arti, l’incrinarsi di oggetti. Siamo dentro territori che la coreografa e danzatrice esplora da tempo: una delle sue pratiche di composizione è, infatti, quella di costringere il proprio corpo con delle fasce di contenimento, in modo da riuscire a lavorare sulla “contro-pressione motoria”, su una qualità del movimento che è innanzitutto scatto, reazione a spinte e influenze che derivano dall’esterno. Non c’è interazione col pubblico, c’è – al contrario – una “calcolata istintualità” che pare riguardare solo ed esclusivamente il soggetto in scena, la sua personale “lotta” di posizionamento nello spazio, la faticosa costruzione di un’identità fisica che sappia prescindere dalle immagini e dalle stratificazioni del corpo.
Quasi non ci fosse soluzione di continuità, dopo lo spettacolo è appunto il corpo di Paola Bianchi e la sua poetica tutta che si traslano in altri formati, che diventano immagini-in-movimento (per utilizzare la definizione di Deleuze del cinema): La parte maledetta è un ciclo di documentari realizzati da Teatro Akropolis e AkropolisLibri, diretti da Clemente Tafuri e David Beronio, in cui la compagnia genovese cerca di porre sotto la particolare lente di osservazione della videocamera altri artisti e artiste con cui sente un’affinità di ricerca. La prima “tappa”, presentata a Ipercorpo, è appunto dedicata al lavoro e alla personalità della coreografa e danzatrice piemontese, al suo percorso artistico e a quanto la sua biografia (o, a un livello forse ancora più profondo, la rielaborazione della biografia in memoria) sia andata a influenzare nel corso del tempo le attitudini e le “inquietudini” in scena. Teatro Akropolis prova a costruire un’intima prossimità con il soggetto della propria esplorazione cinematografica, prossimità tesa a svelarne non tanto le ragioni ultime di alcune scelte artistiche, le progettualità poetiche, quanto piuttosto i compositi e personalissimi contesti in cui tali scelte vengono intraprese. Oltre agli spezzoni tratti da alcuni degli spettacoli della sua lunga carriera, infatti, le inquadrature del primo documentario de La parte maledetta (nella quasi totalità girate all’interno di abitazioni private) sembrano “incastonare” (l’immagine del) volto e (l’immagine del) corpo di Paola Bianchi dentro stanze che sono già ambienti, dentro particolari di paesaggio (un giardino, etc…) che diventano già, in qualche modo, “dimensioni di ispirazione artistica”.
In un certo senso – e forse proprio per “smarcarsi” dal classico meccanismo da documentario giornalistico – la compagnia genovese, invece di raccontare i retroscena di quanto accade sul palco, prova a trasformare quanto è fuori dalla scena in un piccolo avvenimento teatrale anch’esso. O, perlomeno, a metterne in risalto gli elementi di teatralità, per quanto poi il carattere generale del ritratto che ne esce è certamente improntato a una qualità davvero molto intima e per certi versi toccante dello sguardo. Nessuna “morbosità euristica”, nessun marcato intento di “scavo”: piuttosto, un approccio semplice e delicato che si rivela pronto a lasciarsi indirizzare dalle volontà di condivisione del soggetto “intervistato”. Quasi un ri-negoziamento continuo e aperto fra compagnia/regista e attrice/coreografa di come e con quali ritmi dovrà avvenire – dentro alla fantasmagorica simultaneità della celluloide – la trasmutazione della realtà in immagine, del corpo in “sedimento”. A provare a pensarli entro un unico arco percettivo, l’anteprima O_N e il documentario de La parte maledetta compongono – nella terza giornata di Ipercorpo – un dittico dissonante ma complementare, in cui le rigorose spigolosità coreografiche dello spettacolo dal vivo trovano il proprio racconto più smussato e “levigato” su pellicola. Corpo e anti-corpo, dunque: due necessari momenti in cui “avviene” la danza.
Visibile/udibile. La sinestesia del gesto in Paola Bianchi
ELP è il progetto di Paola Bianchi di cui il solo Enérgheia è tappa finale esperita durante la cinquantesima edizione di Santarcangelo Festival. Una riflessione e racconto a quattro mani.
Lucia Medri / Enrico Piergiacomi - 1 agosto 2020 - teatroecritica.net
Lungo due anni, il progetto ELP della coreografa Paola Bianchi si è nutrito di molteplici fasi e aperture, ognuna diversa e complementare alla poetica della danzatrice e articolatesi in un percorso coerente attorno alla «parola e la danza attraverso la trasmissione di archivi di posture». Quella «dichiarazione di esistenza» politica, insita nella postura come cardine della pratica, ha trovato nel processo creativo momenti di studio come, ricorderemo, il laboratorio ESTI. Performance con ipovedenti e non vedenti – tenutosi durante la decima edizione del festival Testimonianze Ricerca Azioni di Teatro Akropolis – in cui la parola udita è veicolo di scrittura coreografica, concretizzata e resa tangibile nel gesto. Fase fondamentale e di abbrivio per questo lavoro di ricerca sulla «trasmissione/enazione» è stata la creazione di un «archivio di corpi» costituito da tutte le fotografie impresse nella memoria di coloro che sono stati chiamati a partecipare alla raccolta. Immagini appartenenti a una memoria collettiva ma ricordate, e per questo selezionate, dalla memoria individuale. Invitate a contribuire, le circa quaranta persone coinvolte hanno dunque dovuto compiere uno sforzo al contrario: dapprima trovare l’immagine impressa nel loro intimo ricordo e poi collegarla all’evento pubblico. Un “esercizio mnemonico ed emotivo”, potrebbe essere definito, che ha fornito alla coreografa ricercatrice più di 350 immagini dalle quali poi estrapolare materiale preliminare per “scrivere insieme” gesti collettivi.
Oltre che uno scavo sul rapporto tra moto e immagine, quindi un affondo sull’aspetto visibile della danza, il progetto ELP di Paola Bianchi è anche un’indagine sul nesso suono-movimento. Spesso l’elemento sonoro è considerato un accompagnamento all’azione coreografica, o un supporto per la costruzione di un ritmo. La danza non è la sonorità né la musica sul piano sia logico che ontologico, bensì procede parallelamente a queste. Bianchi cerca invece una fusione tra queste due dimensioni, fino a rendere del tutto inscindibili il visibile e l’udibile: il corpo che solletica gli occhi e il suono che stimola l’orecchio. Per chiarire i termini della questione, possiamo ispirarci a ENÉRGHEIA [ unplugged ] studio sull’anatomia e sulla vicinanza dello sguardo, una coreografia di pelle, una poetica del corpo muto. Si tratta di uno degli ultimi lavori di Bianchi, facente parte del macro progetto ELP e forse il più programmatico a livello estetico e concettuale, approdato nel cartellone del cinquantesimo anniversario di Santarcangelo Festival e presentato nel suggestivo Nellospazio, area del Parco Baden Powell. Il termine enérgheia è una parola greca che soprattutto in Aristotele indica l’attività, ossia un movimento dove non si è in grado di distinguere il soggetto e il suo oggetto, il processo e il risultato, il mezzo e il fine. Essa si distingue dall’azione in cui invece queste demarcazioni sono operative. Così, la costruzione di una casa non è un’enérgheia, perché il costruttore è diverso dalla casa, il movimento del costruire non coincide con l’edificio costruito, i mattoni non sono la forma del palazzo. Sono invece attività sia la danza che l’ascolto nelle loro forme più semplici, quasi nude. Da un lato, infatti, il corpo del danzatore e il suo movimento non sono diversi dalla danza, come invece lo sono il costruttore e l’atto del costruire dalla casa costruita. Essi sono insieme la forma e la materia dell’attività coreografica. Dall’altro lato, l’ascolto è un’attività in quanto inizia e termina con l’atto di ascoltare stesso. Quando un suono arriva all’orecchio, esso determina solo un’affezione sonora e non un qualcosa di diverso da questa.
Si potrebbe obiettare che anche la danza e l’ascolto producono qualcosa di diverso da sé: per esempio, un altro movimento, un’emozione, un pensiero. Il punto è però che questi sono effetti indiretti e derivati. Il problema è infatti capire quale sia il fine intrinseco dell’attività considerata. La danza in sé mira solo al movimento organizzato, l’ascolto in sé è finalizzato solo a ricevere i suoni. Se l’una e l’altro determinano un effetto terzo, è perché abbandonano il loro fine intrinseco e si pongono come mezzi per altri fini. Il medesimo discorso vale, del resto, anche per l’azione di costruire. Una bella casa può produrre emozioni e pensieri, ma non diremmo che il fine del costruttore sia emozionare e far pensare. Un progetto edilizio che mirasse a ciò uscirebbe dai confini della tecnica della costruzione
Ora, però, quando danza e suono/ascolto si combinano, accade di solito che venga rotta l’unità tra soggetto e oggetto, tra processo e prodotto. Avviene, infatti, che esse fungano appunto da mezzi per costruire un terzo elemento, in questo caso uno spettacolo. Dall’attività coreografica, dove la danza non produce altro che sé stessa, si passa così all’azione coreografica, in cui la danza agisce in modo simile alla tecnica del costruire: produce una forma attraverso il movimento. Se dal punto di vista estetico la dissociazione non crea alcun problema, anzi può portare a prodotti belli e godibili, essa comporta tuttavia una perdita di purezza. Il movimento coreografico che si fa veicolo di significazione o mezzo formale non è più un movimento puro che trova il fine in se stesso, ma si fa mezzo per altro. Il danzatore si trova come dissociato: non coincide completamente con il movimento e con il ritmo della creazione, ma rappresenta un tramite per una creazione e per un ritmo.
La ricerca coreografica di Paola Bianchi va allora forse verso la ricomposizione di questo infranto. La danza non si lascia più accompagnare dal suono, ma si trasforma in una diretta prosecuzione del suono – per così dire, è l’incarnazione visibile di ciò che in sé sarebbe soltanto udibile. Sempre in Enérgheia, questo discorso in apparenza astratto trova la sua realizzazione concreta. La danza di Bianchi risponde infatti qui direttamente agli stimoli sonori che il compositore Fabrizio Modonese Palumbo esegue dal vivo, rendendo così la sua attività organica alla sonorità e non un mezzo al servizio o che proceda in parallelo. L’esito che ne deriva è il contraltare di quella del danzatore “dissociato” di cui sopra. La danza abbandona ogni pretesa formale e di risultato/prodotto, si fa attività pura che trova in sé sia la fine che l’inizio. Ciò manifesta un insieme di forze che infrangono la barriera che di norma separa il movimento dal suono, la vista dall’udito.
Quella dell’ascolto è una prassi che ha contraddistinto inoltre il rapporto di fiducia e confronto intessuto durante la fase processuale con la curatrice e organizzatrice Roberta Nicolai: «Il progetto ELP, nella sua semplicità, rivela una complessità che necessita cura, confronto assiduo. Ed è seguendo la natura propria del progetto che il binomio vita/teatro ha oscillato tra me e Roberta generando un’altalena di riflessioni, un dialogo continuo a volte ossessivo. Ogni dubbio, ogni pensiero si è ancorato a un movimento di questo oggetto che possiamo definire relazione, un andare e venire del tempo della vita e della scena, del luogo che apre le porte all’essere nella scena».
Paola Bianchi costruisce così, in una parola, una sinestesia: la fusione tra il visibile e l’udibile, tra memoria collettiva del gesto e la sua memoria individuale, incarnando quell’archivio fotografico raccolto al fine di dargli movimento e nuova energia al presente. Che forma ha infatti un suono, e che sonorità ha un movimento? Chi separa i due livelli, non sarà mai in grado di percepirlo. Chi – come Bianchi – tenta di unirli, o almeno di ridurre l’abisso che li separa, raggiunge una condizione in cui i sensi sono massimamente allertati, o meglio sono in attività perfetta. Anche questi sono un soggetto che coincide completamente col loro oggetto.
Santarcangelo Festival – luglio 2020
La risorgenza dei festival
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Paola Bianchi e Virgilio Sieni: asciugare un’immagine
Nell’incipit della Vita di Plotino, Porfirio di Tiro riferisce che il suo maestro Plotino si vergognava di essere in un corpo e rifiutava che la sua figura venisse ritratta dai pittori, nella paura che questo pallido simulacro perdurasse oltre l’esistenza biologica. L’immagine è dunque un’estensione della parte peggiore e detestabile di sé: qualcosa che non deve proprio apparire, o che – se già esiste – deve sparire per lasciar spazio alla vita dell’anima incorporea, libera dagli impacci della materia.
Anche il lavoro Enérgheia di Paola Bianchi e le Quattro lezioni sul corpo politico e la cura della distanza di Virgilio Sieni vanno nella stessa direzione di distruzione del simulacro. La loro idea di danza parte da un medesimo assunto e mira a un identico scopo. Da un lato, occorre partire da alcune immagini (una foto o un’effige digitale per Bianchi, un quadro di un pittore italiano a cavallo tra ‘400-‘600 per Sieni) e trasfigurarle nel movimento. Dall’altro lato, entrambi hanno l’ambizione di tradurre l’estetica in politica, ossia creare uno spazio pubblico dove nessuno ha più ragione di vergognarsi di essere un’anima dentro un corpo – o forse di dubitare che l’anima sia il corpo. Si deve infatti partire dalla memoria privata dell’artista, o di chi ha fissato l’immagine su un supporto digitale, e usare il movimento coreografico come un tramite per riappropriarsi dello spazio, del tempo, della corporeità che tutti attraversiamo/abbiamo, ma di cui pochi sono consapevoli.
C’è dunque un tentativo di attivare un processo mimetico che, però, va oltre la concezione classica della mimesi. Semplificando al massimo, quest’ultima prevede che l’immagine incarnata in danza sia una sorta di duplicato somigliante all’originale. Lo spettatore che guarda i danzatori segue la logica del “questo è quello”: riconosce che il movimento corrisponde a qualcosa, che l’atto rinvia a una forma. Ora, Bianchi e Sieni si spingono in là fino a sgretolare il significato, o il rapporto logico di somiglianza, per lasciare che si manifesti solo l’essenza del movimento con le sue linee, i suoi ritmi, le sue forze eversive. La forma è insomma asciugata, affinché emerga solo l’energia pura, che non rinvia ad altro ed è apprezzata di per sé stessa. L’esito non è in fondo molto diverso dalla mistica plotiniana dell’annullamento dell’immagine e del raggiungimento di una vita autentica, senza però la caduta infelice nell’orrore per la materia. “Incorporeo” diventa con la danza una parola che indica la purezza del movimento di un corpo, ossia un moto asciugato da finalità pratiche e logiche significanti che lo rendono pesante e non leggero, brutto invece che bello.
Questa conclusione della poetica e della politica di Bianchi/Sieni può essere inoltre il preannuncio di un nuovo inizio, o la premessa per uno scavo ancora più abissale. Si è asciugata l’immagine o la forma di un corpo in un movimento, ma anche il moto corporeo è asciugabile in qualcosa di ancora più semplice: ad esempio, nella danza degli atomi da cui i corpi sono costituiti. Da questi, si può poi passare a qualcosa di ancora più sottile, come i minimi dell’atomo, o i punti e i grani che fanno danzare il complesso dello spazio-tempo. Con un ulteriore scavo, si può infine passare all’essere, o ciò che è comune a tutti i movimenti danzanti o spaziali/temporali, e da questi al nulla. Ma se asciugo anche il nulla, che danza resta?
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Il distanziamento sociale del danzatore Stefano Casi - 30 giugno 2020 - casicritici.com
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Anche lo spettacolo di Paola Bianchi NRG, ridefinito appositamente per gli spazi all’aperto della rassegna, è in realtà uno spettacolo di repertorio con il titolo Energheia. E anche questo dialoga con il tema delle relazioni e delle distanze. In questo caso, più dello spettacolo assume peso il processo creativo, durante il quale l’artista ha ricomposto nel proprio corpo le memorie visive di una quarantina di persone coinvolte. Secondo quanto dichiarato: “A ognuno/a ho chiesto quali fossero le immagini pubbliche impresse nella propria retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella memoria visiva. Immagini simbolo legate ad avvenimenti storici e a personaggi che hanno segnato la cultura occidentale”. E così, “Ogni immagine è entrata nel mio corpo deformandolo, modificandone le posture e le tensioni fino a generare nuovi stati del corpo – il mio corpo è diventato archivio esso stesso di quelle immagini”. Il gioco delle distanze innerva profondamente la genesi dello spettacolo: dall’evocazione della memoria individuale alla riproposizione di quelle immagini su un altro corpo. L’archivio di cui parla Bianchi è non solo un archivio di immagini e movimenti, ma anche un archivio di distanze, l’aspirazione a colmare la memoria (e dunque l’assenza) attraverso una proiezione. Che a sua volta arriva al pubblico, ulteriormente “distante”, come in un esercizio platonico sulla realtà e l’idea.
La performer snocciola movimenti nei quali di volta in volta si riconoscono labili appigli a immagini più o meno condivise, o meglio ad atmosfere e umori, con il sostegno dell’incalzante e straniante musica dal vivo di Fabrizio Modonese Palumbo. La vicinanza dello sguardo degli spettatori, disposti a ring attorno alla danzatrice, coglie i dettagli del movimento, e al tempo stesso sancisce un’ulteriore distanza di quei segni dall’esperienza emotiva. Come se NRG dichiarasse l’impossibilità della trasmissione dell’esperienza e l’inevitabilità della sua reinvenzione: dall’esperienza vissuta dal testimone originario si passa a quella assorbita e reinventata da Paola Bianchi nel suo corpo e con il suo corpo (e già questo trasfigura l’originale nel simbolico), e infine si approda a quella percepita dallo spettatore, che segue i movimenti come fossero tracce di una Stele di Rosetta da decifrare ma senza un corrispettivo linguistico sconosciuto. Con tutto il fascino che ne consegue, quello di una danza più misterica che misteriosa, come evocata da un altrove lontanissimo, nel quale il corpo della performer ritorna alla fine, regredendo lentamente mentre i battiti musicali si attenuano cupi e ipnotici molto a lungo, come a chiudere un sogno.
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Teatri di Vetro 2019 - Composizioni
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Paola Bianchi e la condivisione di un vocabolario
Come pensiamo il nostro corpo in movimento? Attraverso immagini o parole? Siamo capaci di riattivare il ricordo di una postura avvalendoci solo della dimensione verbale? Su tutto questo Paola Bianchi sta lavorando da anni, indagando la possibilità del corpo di trasmettere un gesto o un movimento codificato a un altro corpo solo attraverso l’uso della parola descritta. La coreografa sta riempiendo così, esperienza dopo esperienza, un enorme archivio mnemonico (intorno a questo si articola il progetto Energheia, presentato a Teatro India durante il festival). Sugli stessi temi Paola Bianchi svolge anche laboratori rivolti a non professionisti di varie età. Alessandro Pontremoli, in un breve testo pubblicato nel catalogo del festival, mette in luce come la coreografa abbia sempre “rivendicato con forza il valore politico del corpo danzante”; e non stupisce dunque come le sue pratiche si rivolgano a ogni genere di utente (disabili fisici e mentali, persone affette da Parkinson, persone ipovedenti e non vedenti), sperimentando la possibilità di tutti i corpi di far proprie e di incarnare soggettivamente quelle partiture verbali.
A Ostia, Paola Bianchi ha lavorato con un gruppo ristretto ma fortemente intergenerazionale: adulti e bambini si sono trovati a condividere le stesse esperienze e gli stessi stimoli, trovando una qualità di movimento e di ascolto reciproco sorprendentemente unitario. Attraverso questa esperienza, si propone ai cittadini di Ostia un rapporto rinnovato con la disciplina danza: non un sapere inaccessibile, che pochi possono esercitare per delega del pubblico, ma un universo a cui si può avere accesso attraverso la condivisione di qualche elemento di grammatica, e la comunicazione in presenza. Accorciate le distanze, lo spettatore arriva a trovarsi sullo stesso piano dei danzatori; e così anche l’atto del guardare ne esce trasformato.
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ELOGIO DEL CAMBIAMENTO, IL CASO MAJAKOVSKIJ E LA DANZA DI PAOLA BIANCHI
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Potrebbe sembrare un paradosso, ma nella stessa sera che Menoventi monta il suo “Incidente” arriva la travolgente danza di Paola Bianchi in un denso solo che toglie il respiro. “Energheia” , nel senso in cui Aristotele indicava la trasformazione, è uno spettacolo post catastrofe. Memoria in movimento del secolo breve che trasloca nel futuro trascinandosi le scorie del passato. E i casi insoluti, e che aprono mille interrogativi, come quello del grande poeta russo, sono lo specchio di un’epoca connessa strettamente ai nostri giorni. Miracolo dell’arte, a leggere in profondità si scoprirebbe una felice assonanza tra le liriche di Majakovskij e la poesia in movimento di Paola Bianchi una delle più ardimentose sperimentatrici della danza in Italia: entrambi sottolineano urgenza e fotografano i cambiamenti antropologici e sociali. Figura importante della ricerca ed essa stessa icona, una delle poche, di un’Avanguardia sempre più dispersa in mille rivoli, Paola Bianchi ha lavorato per più di un anno attorno a un progetto ambizioso, Elp, che ha avuto tre diversi step e momenti espressivi (tra cui una coreografia montata con persone non vedenti), ma di cui proprio “Energheia” rappresenta il cuore pulsante, ispirato da una singolare idea. Visionando una serie di immagini pubbliche fissatesi nella retina di una quarantina di persone la danzatrice le ha tradotte in segni coreografici. Sono fotografie che ciascuna persona interpellata dall’artista ha selezionato dalla camera oscura dei propri ricordi per trasformarli in evento pubblico. Momenti consegnati alla Storia che, per estrema sottrazione, si sono trasformati nelle lettere di un alfabeto danzato, utile a ricostruire sulla scena oltre settanta anni della nostra vita. Un canto politico e poetico per una umanità che muore. Il film scorre veloce. E’ un pulsare continuo di gestualità. Movimenti quasi meccanici di un corpo che si snoda come fosse una marionetta appena uscita dall’atelier di Montparnasse della grande Marie Vassilieff.
Sono personaggi inediti, frutto di un surrealismo etnografico, plasmati in diretta da Bianchi che piega il proprio corpo verso direzioni inattese. Figure composte con la velocità della luce in quadri teatrali dove si rintracciano i tratti di un’arte primitiva, sensori di una spiccata passione per le avanguardie storiche. Come per incanto lo spettatore si trova davanti a una sorta di miniaturizzazione della storia, di eventi entrati nel profondo delle coscienze e risvegliati di colpo anche da un solo cenno: il roteare del bacino, un dito che indica, una ardita torsione. C’è straordinaria mimèsi in quelle pose plastiche, i pugni levati al cielo suggeriscono rabbia e violenza, voglia di spiccare il volo correndo a perdifiato, mentre Fabrizio Modenese con impeccabile maestria in diretta arpeggia alla chitarra elettrica linee di fughe vestite efficacemente dalle luci disegnate da Paolo Pollo Rodighiero. Danza e musica vivono anche in questa creazione in simbiosi solidale dandosi il turno nell’evocare visioni. Sia piazzale Loreto, come l’11 settembre a New York, la piccola vietnamita in fuga dai bombardamenti e napalm. Canto dell’umanità confusa e dal futuro incerto, elogio della trasformazione e del cambiamento anche “Energheia”, stranamente come la poesia di Majakovskij, ha fretta di viaggiare nel tempo. Commuove aprendo interrogativi in un veloce alternarsi di cambi di scena e squarci nel cuore.
Sempre nell’ambito dello stesso progetto Elp (cioè Ethos, Logos e Pathos: modo di essere, parola e ascolto, forza emotiva) la sera successiva è stata presentato un altro work in progress, “Ekphrasis”, dieci giovanissimi danzatori in scena (Barbara Carulli, Camilla Soave, Chiara Andreoni, Elena Salierno, Elisa Quadrana, Francesca Bertolini, Lorenzo De Simone, Martina del Prete Paola Fontana e Sara Capanna, musiche live di Modenese e luci di Rodighiero. Coreografie e regia di Paola Bianchi fuori dal palcoscenico) in un intrico di movimenti tesi a replicare una parte di quell’archivio di gesti e figure che Bianchi ha consegnato loro da “Energheia”. Una sorta di versione in prosa quindi del lavoro precedente ma dotato di un proprio indiscutibile fascino del moltiplicarsi e intersecarsi dei piani così come delle visioni. I ragazzi che hanno lavorato duramente con la coreografa sono coordinati e abbastanza precisi, alle prese con un atto unico per niente semplice. Eppure, sarà la freschezza dell’età e la palpabile energia trasmessa dai loro corpi, “Ekphrasis” lievita e conquista in modo progressivo lasciando il ricordo di una danza ricca di emozioni.
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Teatri di Vetro 13. Riflessioni su un festival che cambia forma
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ELP DI PAOLA BIANCHI
Così, citando solo un esempio della programmazione che, come già sottolineato, è ampia e variegata, la coreografa Paola Bianchi presenta alcuni tasselli del progetto ELP – Ethos, Logos, Pathos, un’indagine sulla trasmissione della danza attraverso la parola descrittiva e, di conseguenza, dei corpi che la agiscono. ELP prende il via da un archivio retinico-mnemonico che la coreografa ha composto con l’aiuto di un gruppo eterogeneo di persone, cui ha chiesto la condivisione di “immagini pubbliche che si sono impresse nella tua retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella tua memoria visiva”. Le posture estrapolate da una selezione di queste immagini vanno a comporre una “coreografia senza corpo”, da ascoltare, incorporare e infine incarnare. L’“audiodramma coreografico” in tal modo sviluppato parte dall’idea che “la danza – nelle parole dell’artista – è come una fotografia, la coreografia è lo sviluppo di questa cosa nello spazio e appartiene a chi la incarna”. La trasmissione della danza attuata con ELP presuppone quindi l’annullamento dell’ego della coreografa, l’esclusione del giudizio, per concentrarsi solo sui processi, unici e personalissimi, con cui il movimento viene incarnato. Con The undanced dance, primo tassello del progetto presentato a TDV, agli spettatori viene offerta la possibilità di sperimentare sulla propria pelle l’azione proposta. Energheia è invece un solo della stessa Paola Bianchi, fulcro del progetto in cui la coreografa per prima si immerge nelle immagini che compongono ELP, rendendole corpo e, così facendo, si trasforma in archivio vivente. Infine, a TDV si assiste al primo studio di Ekhfrasis, spettacolo che debutterà nella prossima edizione del festival di Castiglioncello. Qui l’archivio, sempre tramite la parola descrittiva, che è precisa e concreta, viene consegnato ai corpi di dieci giovani danzatrici e danzatori. Cominciando ancora una volta da un’azione interiore e individuale, il lavoro con i professionisti scava ulteriormente nelle possibilità di incarnazione della danza. I movimenti dettati dall’archivio vengono interpretati personalmente da ogni performer, ma la comunicazione coreografica con gli altri crea una struttura estetica e collettiva, che anche in questa fase embrionale mostra grande potenzialità. La trasmissione passa dall’ascolto della parola ai corpi in scena e tramite questi si propaga nella sala, continuando così a evolversi e incarnarsi nello sguardo e nel corpo degli spettatori.
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Teatrosofia #101. Aristotele e la scena in movimento, in azione, in attività
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Post-scriptum: Lo stimolo a occuparmi di questo problema in Aristotele è nato dal progetto ELP della coreografa e danzatrice Paola Bianchi, nello specifico dai lavori Enérgheia (dichiaratamente ispirato al concetto aristotelico di “attività”) e The Undanced Dance. In esperimenti performativi come questi, attualità e processo coincidono. La danza diventa creazione totale e non più imitazione della realtà, di un carattere, di un’emozione o di un’idea. Collocando l’atto coreografico di The Undanced Dance al buio e al riparo dalla vista dello spettatore, ad esempio, Bianchi fa sì che i movimenti dei danzatori stimolino la memoria senza referente e il pensiero nella sua purezza, senza il tramite della vista. Abbiamo dunque un movimento e un’azione che cercano di prosciugare il movimento o l’azione in loro stessi, o che cercano paradossalmente di approssimarsi per quanto è possibile alla quiete e al silenzio. La danza si avvicina così all’attività nell’immobilità di cui parlava Aristotele: una danza immobile in cui è sempre vero dire in ogni momento “sto danzando” e “ho danzato”, perché non c’è prodotto da realizzare in partenza attraverso il processo. Il fatto che lavori del genere arrivino a conclusioni che Aristotele non aveva mai difeso, pur partendo da concezioni aristoteliche, sta a dimostrare come le intuizioni dei testi antichi possano avere uno sviluppo imprevedibile nella ricerca artistica e nella storia del pensiero.
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Oscillazioni per esercitare lo sguardo: Teatri di Vetro 2019
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Ad aprire la prima serata Paola Bianchi con la sua – e nostra – The Undanced Dance, che propone «una coreografia senza corpo che cerca corpi in ascolto e in azione». Danzatrice e coreografa indipendente, Paola Bianchi raccoglie la sua profonda sensibilità e precisione nelle registrazioni fornite a ogni partecipante, convertendo un solo di una decina di minuti in una vera e propria narrazione coreografica. Costante, lenta e dettagliata, la sua voce diventa immagine danzata nella mente, visualizzazione coreografica di un corpo fluido nello spazio celebrale. Azioni che sfumano e si dissolvono nella compiutezza di ciascun gesto per riversarsi nell’altro, un’operazione che accumula residui di movimento, segni che scompaiono nel loro tracciarsi. Al pubblico viene lasciato il piacere di farsi portare, la libertà di mantenere il coinvolgimento alla visione mentale e la possibilità di abitarlo col proprio corpo. Esserci, presenti, sostanziali e residuali come un gesto o una parola. Che lo spazio sia interiore o esteriore, ne manifesta l’indissolubile sostanza del corpo e coinvolge un investimento personale attraverso gli occhi di un altro. Lo sguardo, spesso si dimentica, è ciò che raccoglie la prospettiva di ognuno, la direzione da cui si osserva, giudica e sente il mondo. È il corpo che condiziona lo sguardo, da lui si parte e si torna: privare una danza della visione ne può comportare la riattivazione, in cui l’energia attraversa la forma come le onde del mare. La danza segna i limiti di ogni corpo e, al contempo, l’irrinunciabile desiderio di tendere altrove, in quel tipo di partecipazione che permette di riconoscerlo.
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IO (NON) BALLO DA SOLA
Sanzia Milesi - 20 dicembre 2019 - vita.it
La performance ideata dalla coreografa Paola Bianchi, dove la parola agisce in scena sui corpi di ipovedenti e non vedenti, guidandone il movimento. Una nuova modalità di fruire e vivere il teatro. Che ha già debuttato prima Genova e poi Roma
Una pratica di trasmissione orale del movimento. Come far arrivare, ad una persona non vedente (ma anche a chi ascolta in radio), le indicazioni per agire un movimento, per ballare una danza, per rendersi parte collettiva di una coreografia? Se lo è chiesto Paola Bianchi, danzatrice e coreografa indipendente, torinese classe 1962, oramai romagnola d'adozione, che da tempo con i suoi lavori di ricerca ben insegna l'importanza del corpo in scena. Com'è già stato sin dai suoi esordi negli anni Ottanta e nel suo volume “Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento”, o solo per citarne un paio, con il progetto di danza verbale del file audio “NoBody” e la serie di radiodocumentari sull'opera teatrale del regista polacco Tadeusz Kantor trasmessi da Radio3 nel 2015.
“Esti” ha debuttato in prima assoluta al Teatro Akropolis di Genova in novembre, per poi passare al Teatro del Lido di Ostia per il festival Teatri di Vetro in metà dicembre, e chissà quanto altro viaggiare ancora. Sin dal suo nome, Esti, terza persona dell'indicativo del verbo essere in greco antico, è una dichiarazione di esistenza. La conclusione performativa di un laboratorio condotto da Paola Bianchi con un gruppo di danzatori non professionisti, quattro ragazze di 20/30 anni ipovedenti e non vedenti, coinvolte in questo debutto dall'Unione Italiana Ciechi e dall'Istituto David Chiossone di Genova. Un lavoro che indaga la trasmissione della danza attraverso la parola descrittiva, “escludendo il corpo del maestro come modello di riferimento da seguire e imitare” e diventando per loro “motore di ricerca interna al proprio corpo”.
Parla così di “immaginazione muscolare della coreografia” Paola Bianchi, che spiega com'è nato questo importante momento: «Già grazie al progetto Elp e al lavoro di immersione emotiva compiuta con lo spettacolo “Energheia” sugli archivi mnemonici di una quarantina di persone, ho voluto indagare la relazione tra danza e parola. Ho lavorato sullo spazio e sul ritmo e descritto in note vocali delle posture (“ho i piedi paralleli, il braccio destro in alto con il pugno chiuso...”), posizioni anche complesse, che poi ciascuno assumeva a seconda delle capacità del proprio corpo, ma anche di come le sentiva su di sé, secondo una propria incarnazione personale. Posture che, per altro, andavano prese come “appuntamenti”, da legare assieme in una composizione coreografica più armonica. Facendo questo con persone che non vedono come io mi stia muovendo, elimina la tipica frustrazione che esiste sempre nei confronti del corpo del maestro come modello da imitare, e quell'immagine la crei tu, nella tua testa. Questo mi ha permesso di indagare sino in fondo cosa succede nella danza a partire dalla parola. E mi ha portato a ripensare anche al mio linguaggio, e a cose banali, che banali non sono. Ad esempio, durante le prove sono sempre stata di fronte a loro sulla destra e da lì veniva la mia voce. Poi, senza pensarci, alle prove generali mi sono spostata con la consolle a sinistra ed è stato improvvisamente un disastro, perché, riferendo i loro corpi verso la mia voce, non riuscivano più a riconoscere gli spazi di riferimento e quindi a comporre la successione costruita dei movimenti. È stato necessario e utile anche per me provare a chiudere gli occhi e imparare a misurare con i piedi per orientarmi nello spazio. Utilizzare l'ecolocalizzazione con lo schiocco delle dita per far percepire la vicinanza/lontananza dal muro. Indicare con lo scotch a pavimento il punto centrale della scena. Perché se tu non vedi e io ti dico “stai al centro”, non hai coordinate visive spaziali ed è quindi necessario creane altre. É stata una traduzione. Un'altra ancora, rispetto a quelle che avevo sperimentato in passato. A Torino con un gruppo di malati di Parkinson, che concentrandosi su suono e musica per il controllo del movimento riuscivano in qualche modo a spegnere per un attimo la scossa di quel loro tremore. Oppure a Castiglioncello, in provincia di Livorno, con un gruppo misto di ragazzi di un liceo coreutico e disabili mentali, che in questo caso agivano invece per imitazione, dove alla fine dello spettacolo mi è stato chiesto dal pubblico: “ma sono tutti disabili?”. È stato il complimento più grande. È ciò che deve succedere: non accendere il riflettore sulla disabilità.»
A partire da questa sensibilità, tutta personale di Paola Bianchi, è stato così possibile creare uno spettacolo di danza, che è insieme un lavoro su di sé e sulle proprie potenzialità, normodotate o relativamente dotate, com'è poi per tutti. «Quando si sono presentate delle difficoltà – chiarisce così la coreografa, tornando con l'agevolezza che le è propria, dalla ricerca teorica di un percorso possibile alla sua pratica sul campo – magari negli esercizi di riscaldamento, quando qualcuno piegava la schiena in modo scorretto, essendo impossibile il “guarda bene”, allora ponevo le loro stesse mani sul loro corpo, per far sentire loro dove si muoveva l'articolazione e dove poggiava il movimento. “Il pubblico è come una grande mano che passa sul vostro corpo e capisce cosa avete esposto di quella forma” dicevo loro. Perché è un'altra abilità quella che devono dimostrare: il loro saper andar oltre, il loro vedere con le mani. Una di loro mi ha detto un giorno: “non cambierei niente, sono felice di essere come sono”. Ed è questo che deve passare. Non il commuoversi, non una pietà becera che nasce da qualcosa che in scena sottolinea l'handicap. Perché l'handicap non c'è una modalità per escluderlo, ma è possibile non dichiararlo. Così chiedevo loro: “se tocchi con il piede la linea di confine dello spazio, non avere uno scattino che lo renda evidente e prosegui sciolto, cambiando direzione senza spaventarti, e se per sbaglio sbatti con qualcuno, quello è un incontro, non uno scontro”. Abbiamo lavorato così, insieme, per eliminare questa cosa del “vi faccio vedere che non vedo”. Ma poi su tutto, ciò che è veramente importante, è l'accoglienza di ciò che viene.»
TEATRI DI VETRO 2019: LA PAROLA OLTRE IL GESTO
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Anche per Paola Bianchi, che pur lavora in direzione e con strumenti completamente diversi rispetto a Gribaudi, la parola ha qui un ruolo centrale. Il polittico composto dalle sue quattro presenze sul palco è una sorta di ossessiva ricorrenza, di inesausta variazione e di tempio eretto a uno sceltissimo numero di gesti, esplorati nelle loro composizioni geometriche, nelle loro possibilità di interpretazione, fraintendimento, comunicazione. Ma, soprattutto, transcodificati, trasmessi non tramite l’esempio e la pratica dell’imitazione, ma esclusivamente attraverso la descrizione verbale.
Questi pochi gesti ora passano per i quattro partecipanti al laboratorio (tre bambini dagli 11 ai 13 anni e una donna), che li fanno propri, li ampliano, li modificano, introiettandoli e poi restituendoli sporcati; ora sono diffusi – con e senza cuffia – per gli spettatori di “Undanced dance”, con la richiesta ai partecipanti di una prova d’esecuzione; fanno infine parte del nucleo centrale, rovente, di “Energheia”. Quest’ultimo denso e spinoso lavoro, a volte al limite dell’ermetismo, vibratile, ombroso (come un cavallo), accompagnato dalle chitarre di Fabrizio Modonese Palumbo, è di un’informalità a tratti spiazzante, persino violenta.
La scena è vissuta sregolatamente, a volte ignorata nei suoi spazi più scontati e accesa nelle periferie, percorsa con agogiche imperscrutabili e apparentemente aliene allo sviluppo, per accostamenti, che è quasi una suite, un rondò imprevedibile.
I movimenti, agglutinati in significanti di ardua decifrazione, ora spezzati e innaturali, al limite dello spasmo, ora diluiti in lunghi momenti di stasi, di atti scopertamente mimetici (i “passi felini”, il pugno chiuso alzato e il capo curvo), sono imprevedibili, una lontana eco – pur nella loro tensione – di qualcosa di intimo, spaventosamente più forte, occulto, che pare lui guardare noi, non viceversa. Eppure, tutto ciò ha una chiave di lettura in quelle parole che descrivono i movimenti, e che troveranno un ulteriore corpo in cui incarnarsi con “Ekphrasis”.
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“Testimonianze ricerca azioni”, una passione lunga un decennio: pensiero e metamorfosi della scena contemporanea
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Al nostro arrivo a Genova, percorrendo da Piazza Principe la multietnica via di Prè arriviamo in salita alla Casa Paganini, che fu dimora del violinista e compositore Niccolò, per una delle tre coproduzioni Pindoc del festival, ESTI. Performance con ipovedenti e non vedenti, esito del laboratorio condotto da Paola Bianchi, performer esperta di drammaturgia del corpo, ovvero di come la parola possa indicare la strada al movimento, anche in assenza della vista. La coreografia, intesa come scrittura del movimento nello spazio e nel tempo, ha una sua semiotica che l’avvicina al linguaggio verbale. Modificando la distribuzione dei corpi e della massa di ciascuno nell’etere, qui la parola fuori scena è “prescrittiva”, dialoga con lo spazio delimitato in superficie da una striscia di nastro adesivo che si percepisce al tatto sensibile delle performer. Ciò che accade è straordinario, e non perché straordinari siano i corpi che si mettono in gioco, ma perché straordinaria, precisa, rigorosa, è la cronologia in cui si manifestano le azioni, alcune di queste anche a canone, delle quattro performer. Straordinaria, ancora, la qualità del gesto, dell’accoglienza all’interno del campo magnetico della scena di altre forze centripete, di persone dal pubblico che, in virtù di un principio democratico di convivenza, sono invitate a chiudere gli occhi e ad abbandonarsi per incontrare l’altro, sentirlo prima attraverso il calore della prossimità, e poi attraverso l’epidermide.
Se la delicatezza del processo e della restituzione del laboratorio comunica un approccio di tipo sensitivo, empatico, di tutt’altro calibro il lavoro della stessa Paola Bianchi andato in scena in prima assoluta, Energheia, un lavoro di cui sconsiglieremmo la visione a un pubblico dall’udito sensibile, per i volumi molto alti delle musiche, composte ed eseguite dal vivo da Fabrizio Modonese Palumbo. Se in ESTI la delicatezza e la dolcezza contraddistinguevano il gesto delle performer, qui le linee sono dure, disarmoniche. Non manca l’approccio analitico-scientifico: il corpo magro viene come radiografato, mostra attraverso il movimento le sue più sottili possibilità di snodo articolare. Una massa informe che si visualizza come mucchio di ossa ripiegato su se stesso, elastico, che da terra realizza un effetto sottilissimo di rimbalzo, vibrando con il suono violento e ostinato del tappeto sonoro. Il progetto è ambizioso: «primo dispositivo del progetto ELP, Energheia nasce da un’immersione emotiva negli archivi retinico-mnemonici di una quarantina di persone alle quali ho posto una domanda: quali sono le immagini pubbliche che si sono impresse nella tua retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella tua memoria visiva? Immersi come siamo nel calderone delle immagini, caratteristica primaria di questo secolo, quei frammenti di accadimenti fermati su supporto analogico o digitale sono a tutti gli effetti pezzi di storia, un atlante mnemonico personale e condiviso». Il risultato è una performance per palati raffinati.
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CORPO, SPAZIO, RELAZIONI: AL FESTIVAL TESTIMONIANZE RICERCA AZIONI DI GENOVA
Come la danzatrice e coreografa racconta nel denso volume che accompagna il Festival (tanto ci sarebbe da dire sull’instancabile attività editoriale di Teatro Akropolis, oltremodo meritoria in questi tempi bui), l’assolo è stato costruito a partire da qualche centinaio di immagini, «pubbliche e non personali», reperite interpellando una quarantina di persone «diverse per età, sesso e professione» e poi incarnate e composte attraverso un rigoroso e visionario processo di embodiment da cui è scaturita, in dialogo con una partitura sonora live di pulsazioni elettriche e distorte sonorità chitarristiche, una coreografia di tensioni e linee spezzate, intrecci e sovrapposizioni nella quale la dimensione muscolare, finanche ginnica, è parsa funzionale ad incarnare, piuttosto che ad imitare, le immagini-stimolo ricevute.
Vien da pensare a Egon Schiele, immediatamente, ma anche e soprattutto alla inderogabile relazione fra il corpo e lo spazio che lo costringe e al contempo lo fa esistere così come Gilles Deleuze lo legge nelle Figure di Francis Bacon.
In un serrato, potentissimo susseguirsi di spasmi e tremori, il corpo dolente e inquieto dell’interprete fonda la propria vibratile presenza sulla possibilità di farsi trasparente, o meglio di divenire veicolo di immagini, secondo una concezione antica di poeta come connettore, ancor prima che creatore.
Tanto altro si potrebbe dire su questo archivio di carne e tendini, di muscoli e ossa, dal quale affiorano in controluce istanze e tensioni che hanno fornito spinta propulsiva alle ricerche di Avanguardie, Neoavanguardie e, come qualcuno le definisce, Terze Avanguardie, nell’ultimo secolo o giù di lì.
Ma, al di là dei rimandi soggettivi o delle opinabili connessioni con la storia dell’arte, ciò che emerge con forza è la “lente scientifica” attraverso cui questa sapiente danzautrice ha trasdotto un materiale che se non trattato con rigore disciplinare sarebbe scaduto in un inutilmente generico pourparler,ma al contrario fondando, per dirla parafrasando ancora de Certeau, il luogo da cui pronunciare il proprio discorso coreutico: «Il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione».
Questo luogo, ça va sans dire, è il corpo nella sua relazione con lo spazio.
DIARIO TESTIMONIANZE RICERCA AZIONI - 4
Maria Dolores Pesce - 15 novembre 2019 - dramma.it
Energheia, termine di coniazione aristotelica, è una di quelle parole che mantengono nella loro sonorità primitiva ed originale ciò che hanno perso nella traduzione contemporanea, purtroppo tendenzialmente banalizzante come direbbe Benjamin. È l'atto della trasformazione e dunque, qui, non tanto l'energia che alimenta lo spettacolo quanto lo spettacolo stesso. Uno spettacolo che è il risultato di un indagine mnemonica, di una immersione nei segni che la realtà, ovvero quella che immaginiamo tale, produce nell'inconscio e che questo conserva, elabora e restituisce non tanto reattivamente quanto creativamente, un segno mutante che diventa simbolo/particella del nostro singolare percorso esistenziale. Come nel Georg Walter Groddeck amato e citato da Edoardo Sanguineti, per il quale “tutto in noi, anche quello che appare più accidentale, è determinato da pulsioni profonde”. La danzatrice, che ha raccolto e selezionato quaranta di queste immagini, se ne fa fisicamente carico, discernendo e metamorfizzando, per cui la danza diventa quasi un dialogo tra ciò che è presente qui e ora e ciò che all'apparenza è perduto ma ancora suggerisce e suggestiona. Un movimento che implode, uno sguardo affascinato dal profondo che, come un codice segreto, ci definisce e circoscrive, tutto all'interno di una atmosfera sonora e musicale post-moderna, direi, e quasi dissociata. Emerge così un alfabeto che potremmo definire di spasticità emotiva, un alfabeto che sembra caratterizzare una modernità incapace di articolare serenamente la relazione con l'altro e che dalle macerie di quella relazione appare travolta. Quasi uno sforzo di elaborare i propri confini emotivi che si abbatte sulla chiusura degli altrui confini. Di e con Paola Bianchi, molto brava. Musiche di Fabrizio M. Palumbo, luci di Paolo P. Rodighiero. Tutor Roberta Nicolai e Raimondo Guarino. Residenze e sostegno: Lavanderia a Vapore, L'arboreto-Teatro Dimora, Teatro G.Villa, Armunia. Una produzione PinDoc, coprodotta da Agar, Teatri di Vetro, Teatro Akropolis, con il contributo di MIBAC e Regione Sicilia.
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