Paola Bianchi
ESSERE CORPO NELLA SCENA*Eliminare il modello
Le immagini entrano dentro il corpo attraverso gli occhi, lì si depositano, sostano e lentamente ne modificano le posture attraverso un processo imitativo volontario e involontario. Durante l’atto di trasmissione della danza, ovvero quando la mia funzione è esclusivamente legata alla coreografia, le immagini che il mio corpo genera sono veicolo di imitazione volontaria da parte di chi interpreta la coreografia. Ma cosa succede se le immagini generate dal mio corpo vengono trasmesse attraverso le orecchie? Cosa genera la descrizione verbale di una postura nel corpo di chi la incarna? Queste le prime domande che hanno avviato nel 2018 il progetto di ricerca coreografica ELP.
In questi anni ho affinato un metodo (inteso letteralmente come via per giungere a un determinato scopo) che prevede l’eliminazione del mio corpo di coreografa come modello da seguire e imitare e ciò avviene attraverso la trasmissione via audio di archivi di posture generati da immagini incarnate precedentemente dal mio corpo. Le posture presenti nei miei soli di danza facenti parte del progetto ELP sono state descritte a parole e registrate in file audio. La descrizione è esclusivamente anatomica e non prevede alcuna “sensazione” aggiuntiva, alcuna indicazione legata alla modalità di incarnazione della postura, alcuna indicazione coreografica: è semplicemente una posizione del corpo. Tale posizione viene incarnata in modo assolutamente personale; ogni individuo riceve l’istruzione via audio e incarna la postura nel modo in cui la comprende e nel modo in cui il suo corpo la capisce e la sente, ogni personalizzazione della postura è quindi benaccetta.
Il metodo che conduce alla creazione degli spettacoli in cui sono coinvolte altre persone in qualità di interpreti prevede una serie di passaggi. Prendo come esempio concreto il lavoro svolto con Barbara Carulli per la creazione del solo di danza Other OtherNess.
- Ho consegnato a Barbara quattro tracce audio contenenti le descrizioni dettagliate di quattro posture del corpo chiedendole di incarnarle e memorizzarle. Una volta memorizzate gliene ho consegnate altre quattro e poi ancora fino a raggiungere un numero adeguato alla creazione di una prima partitura.
- Le ho poi chiesto di nominare le posture e di unirle fino a creare una partitura unica di movimento. È importante nominare le posture per fare in modo che diventino parte della propria partitura, che si connettano a un pensiero, a un’immagine personale, un rimando necessario per riempire di senso la forma. Fino a questo momento il mio compito è esclusivamente legato all’osservazione del processo di incarnazione da parte dell’interprete e le descrizioni delle posture iniziano a risuonare come un’eco lontana.
- Solo dopo la visione della partitura creata da Barbara è iniziato il vero lavoro coreografico. La mia funzione si è “limitata” a scardinare la sequenza (parola bandita dal mio vocabolario coreografico) per farla vivere istante dopo istante, cosa che può avvenire solo eliminando le “transizioni” tra una postura e l’altra ed eliminando le posture stesse: ogni istante della partitura deve essere il momento più importante, la presenza del corpo non può vacillare mai. L’ho spinta allora a sentire il corpo, a individuare i punti in cui le forze interne al corpo si appoggiano, le pieghe in cui nasce il movimento, ogni movimento. Le ho chiesto il perché di ogni piccolo movimento, senza pretendere risposte verbali ma aspettando risposte dal suo corpo.
Ogni piccolo movimento deve avere ragione di esistere, deve essere motivato dal corpo, da una narrazione interna al corpo. Eliminando ogni forma di giudizio, cerco la “verità” del movimento, la sua vita, e non la sua bellezza estetica. Attraverso le mie domande metto in crisi le certezze del corpo in azione, provo a eliminare le sue abitudini, le sue sicurezze per portare il corpo a essere nella scena e non a fare sulla scena. Il mio compito è quindi quello di aiutare l’interprete a riempire la forma di contenuto, a distruggere la forma per far sì che in ogni istante il corpo sia presente. A partire da ciò che inizia a scaturire da questa nuova partitura, creo lo spazio dell’azione, lascio lavorare il mio pensiero fino a individuare il “luogo” di quell’azione che nel caso di Other OtherNess si è concretizzato nelle proporzioni della pianta de La Zattera della Medusa di Théodore Géricault. Inizio allora a orientare quel corpo nello spazio, a creare la relazione con lo spazio, lo porto a essere abitato dal tempo, dal ritmo, verifico costantemente la sua potenza e la sua fragilità, individuo i punti deboli per scavare dentro quelle debolezze.
Una cosa non ho mai fatto da quando ho iniziato a lavorare con il metodo ELP: mostrare la mia forma, il mio corpo in azione, spingere verso l’imitazione del mio movimento; e proprio questo significa eliminare il mio corpo di coreografa come modello da imitare. La mia presenza in sala è però costante, è protesa nella creazione della coreografia, coreografia che è fatta di corpo (forma del corpo e forza del corpo), di spazio e di tempo.
L’incarnazione delle tracce audio genera una danza, non una coreografia. Sono il lavoro di scavo costante, la visione attenta, la creazione delle relazioni con lo spazio e il tempo a creare la coreografia, e poi l’individuazione del senso del lavoro che si sta creando attraverso la relazione con il disegno luci e prima ancora con la composizione musicale. Ciò che nasce dalla trasmissione via audio di posture o di volumi del corpo è qualcosa che trascende le mie intenzioni. La scrittura coreografica non passa attraverso un concetto stabilito a priori, una drammaturgia di senso e di spazio, ma è come se avesse vita propria, nasce senza forzature, senza intenzioni. Un’autonomia di senso che mi sorprende ogni volta.
Eliminare il proprio corpo significa sottrarsi all’imitazione ridicola del movimento ma non significa escludersi dal processo di creazione. Significa accettare altri corpi senza tentare di plasmarli a propria immagine e somiglianza, dare spazio a quei corpi accogliendone le diversità; significa spingere l’interprete a percepire il proprio corpo come unico; significa aiutare l’interprete a riempire la forma di contenuto, a distruggere la forma per far sì che in ogni istante il corpo sia presente; non significa negare la propria autorialità ma opporsi alla gerarchia di potere.
L’eliminazione del mio corpo di coreografa come modello da seguire e imitare porta inevitabilmente a una ricerca personale, a una qualità di movimento non imposta dall’esterno.
Ma cosa succede se questo metodo di trasmissione viene applicato a me stessa? Se la mia stessa voce diventa guida, dettatura che non concede respiro, che non permette l’apertura di un campo di azione svincolata dalla partitura scritta e registrata in voce? Cosa significa incarnare posture frammentate?
Auto-eterodirezione
La forma del vivente, quando cessa di vivere, partorisce qualcosa che non è l’informe per semplice negazione - per semplice scomparsa, per semplice privazione - ma l’informe per sopravvivenza, l’informe dotato della capacità di proliferazione, manifestata dalle colonie di microbi, dai mucchi di vermi brulicanti, dagli sciami di mosche o dalle brigate di fantasmi. In questo processo il panneggio è sempre presente: supplemento di grazia nella figurazione umana, diventa supplemento d’orrore nella carogna disumana.
Georges Didi-Huberman
ASSIMILIA è il risultato di una lunga analisi intorno al corpo come luogo di deposito delle immagini, e di un lungo processo di ricerca che si è sviluppato attraverso alcuni passaggi:
- creazione di tre archivi retinico-mnemonici (memorie occidentali, altre memorie, corpi della protesta) attraverso il coinvolgimento di tre gruppi di 40 persone a ognuna delle quali è stato chiesto di individuare le immagini fissate nella memoria visiva personale e collettiva, immagini simbolo che sottolineano un cambiamento del corso della Storia, immagini iconiche che si fissano nella memoria personale proprio per la loro valenza collettiva.
- Incarnazione delle immagini ricevute in diverse partiture di danza che confluiscono in una creazione scenica, un solo di danza. Il mio corpo diventa esso stesso archivio e deposito di immagini corporee in un processo di riattualizzazione organica della Storia.
- Ogni solo è stato sezionato e le posture di cui il solo è composto sono state descritte verbalmente e registrate in voce diventando file audio e andando a costituire tre archivi di posture.
- Le posture presenti negli archivi sono state dissezionate e catalogate secondo una logica anatomica (posizioni del corpo / del braccio destro / del braccio sinistro / del busto / della testa / della gamba destra / della gamba sinistra). Le posture sono diventate allora pezzi di corpo separati uno dall’altro (archivi frantumati), sono stati mischiati secondo una logica aleatoria e registrati in voce, andando a generare figure e non più immagini.
Frantumare le posture è stato un passaggio inevitabile, un passo necessario per avviare nuovi pensieri intorno al corpo nella scena. Un’indagine che si spinge dentro la rigidità della regola e che tenta di salvare quel corpo.
Una messa in discussione della volontà, dell’interpretazione, dell’integrità del corpo e di conseguenza dell’autorialità. Ecco qui si ribalta il punto di vista, qui l’autorialità viene cancellata dall’obbedienza alla parola che impone, che determina il movimento, lo spazio, l’azione.
panneggio
piega
estensione - intensità
inerenza
inviluppo
polvere
materia abortita
inorganico
imposizione costante
movimento dettato dall’esterno
la mia voce determina le azioni | io sono altro da lei
il ritmo è cruciale
Il tempo diventa allora il tempo della voce dove ogni variazione di tensione del corpo deve per forza di cose giocare con lo spazio bianco tra una parola e l’altra senza però seguirne il ritmo all’unisono.
auto-eterodirezione
figure isolate
isolamento della figura
il corpo è la figura
soggetto e oggetto insieme
distruggere la chiarezza con la chiarezza
ciò che accade o è già accaduto o è sul punto di accadere
dissezione del corpo
un corpo fatto a pezzi
autopsia delle posture
montaggio de-anatomico
il corpo si piega su sé stesso
indecenza è parola importante per lo stato del corpo
In scena avviene una sorta di sdoppiamento ed è come se il mio modo di stare nella scena tornasse ogni volta alla radice del movimento di partenza, ripercorresse la strada al contrario, andando a scavare nell’indecenza del corpo. C’è una continua resistenza alla dettatura, al ritmo esterno: il corpo deve resistere per non diventare vuoto, deve opporsi all’obbedienza pur obbedendo, deve concentrarsi sui dettagli, sulle sfumature, deve urlare senza voce.
lavorando perdo l’orientamento, non so dove sono, mi perdo. la concentrazione sull’ascolto e la conseguente esecuzione delle mie/sue parole dette/dettate mi portano a non sapere cosa succede fuori, sono isolata
Non so nulla, non ho idea di cosa succeda dall’esterno, non ho la percezione della visione esterna, del suono e delle luci. Sensazione nuova e spiazzante. È come se non avessi controllo della scena. La concentrazione nell’ascolto mi riporta costantemente verso l’interno, mi impedisce quel rapporto dialettico con lo sguardo. Mi viene in aiuto Roberta Nicolai, diventa lei lo sguardo interno che comprende la visione dall’esterno; orienta le figure, diventa la bussola di uno spazio che ancora non ha un fronte. Insieme iniziamo ad afferrare il senso del disegno coreografico, lo spazio si chiarisce e le figure prendono vita. Ma solo dopo la prima presentazione davanti a un pubblico mi sono resa conto di ciò che ho fatto, ho capito il senso del lavoro, ho iniziato a comprendere il percorso creato dal corpo. Le parole di chi ha visto mi hanno restituito il senso di ciò che ho fatto regalandomi lo stupore di un pensiero sotteso ma non volutamente espresso.
Un corpo non più libero di muoversi nello spazio, costretto da una partitura registrata in voce, un corpo che non può scegliere, un corpo intrappolato nell’eterno conflitto tra l’interno e l’esterno, tra ciò che deve e ciò che vuole. Uno stato dell’essere nella scena che chiama in causa la solitudine dell’essere umano contemporaneo, condizionato sin dalla nascita da una doppia condizione: da un lato la propria volontà, il proprio desiderio, dall’altro il dovere, gli obblighi legati alla convivenza in comunità e alla morale. Mai completamente liberi, agiamo in un continuo compromesso tra l’interno e l’esterno, tra legge e autonomia, tra ciò che desideriamo fare e ciò che dobbiamo fare. Chiusi in un recinto ben definito di leggi e doveri morali ci troviamo nell’illusione di scelta, illusione che svanisce nel momento in cui ci rendiamo conto che possiamo scegliere solo tra qualcosa che ci è dato.
biforcazioni | caduta
tensioni | compromessi | condensazioni | spostamenti
dinamica di biforcazioni
inversioni dinamiche
Cosa resta della mia autorialità? Come possono agire le forze interne sulle quali si appoggia e nasce ogni movimento, se le azioni coreografiche nascono dall’esterno? Come può l’interno spingere se non conosce il momento successivo? Quanto è dilatabile quella zona di confine tra l’interprete e l’autrice? A quale immaginario mi connetto? L’immaginario non esiste, non c’è tempo per una connessione tra immagine e corpo, la voce procede, e la sensazione è quella di essere rotta, disconnessa, frammentata. Allora lo sforzo più grande è quello di salvare la danza, di non farla diventare una mera esecuzione di azioni, di non cadere nel fare sulla scena. Una lotta interna prende vita, tra obbedire e vivere, tra fare e essere. Una sfida che a ogni replica si riaccende.
*Il testo è stato pubblicato in C. Tafuri D. Beronio, Teatro Akropolis Testimonianze ricerca azioni, Volume dodicesimo, Genova, AkropolisLibri 2022
Barbara Carulli
NoPolis di Paola Bianchi *
Mi rivolto, dunque siamo.
Albert Camus
Archivi
Paola Bianchi è una coreografa e danzatrice attiva sulla scena italiana dagli anni 80’. Si forma presso la scuola Bella Hutter di Torino e dopo una prima esperienza come danzatrice nella compagnia di Anna Sagna inizia la sua carriera come autrice. Il fermento politico e culturale degli anni 70’-80’ e la rivoluzione che stava avvenendo nel mondo della danza - il passaggio dalla danza modern alla danza contemporanea - si sono rivelati elementi cruciali per il suo sviluppo artistico.
Di seguito, ai fini della mia ricerca, prenderò in esame l’ultima creazione intitolata NoPolis, presentata per la prima volta durante la quattordicesima edizione del festival Teatri di Vetro, presso il teatro India di Roma. NoPolis è un’istallazione performativa appartenente al dispositivo di ricerca ELP (ethos, logos, pathos), un progetto che l’artista porta avanti dal 2018 incentrato sui processi di incarnazione e di trasmissione di un immaginario collettivo. Nell’epoca «dell’immaginazione lacerata», come direbbe Didi-Huberman, Paola Bianchi ha indetto una chiamata pubblica al fine di raccogliere le immagini «impresse nella retina», ovvero quelle immagini che appartengono a una memoria storica e culturale comune, collegando gli intimi ricordi agli eventi pubblici. A partire da questo esercizio mnemonico ed emotivo richiesto ai partecipanti, l’artista, attraverso uno studio ermeneutico delle molteplici immagini ricevute, ha poi sviluppato una «coreografia di pelle, una poetica del corpo muto». Il corpo dell’artista diventa quindi un archivio di posture che mette in luce quanto il corpo stesso sia inscritto nel contesto storico e sociale a cui appartiene, in particolare modo se si tiene conto di una prospettiva antropologica e semiologica, la quale considera il corpo un costrutto regolato dalla cultura estetica e dalla società.
Paola Bianchi ha costruito tre archivi di immagini: il primo composto dalle «memorie occidentali», dal quale ha luogo lo spettacolo Energheia; il secondo chiamato «altre memorie», le cui immagini sono state fornite da persone con background migratorio, dal quale ha origine lo spettacolo O_N; infine, vi è l’«archivio dei corpi della protesta» costruito per NoPolis.
Se l’archivio «retinico mnemonico» dato dalle immagini occidentali costituisce un immaginario riconoscibile per l’artista, tanto che il corpo «anche nella più terribile delle immagini incarnate, ha trovato un agio nello stare, un agio dovuto alla conoscenza profonda delle ferite», allora, per poter intraprendere un nuovo processo di incarnazione, diviene necessaria e conseguente la domanda «che cosa sono per me invece quei corpi stranieri?». «Affrontate dai bordi, dai margini, quelle immagini si sono attaccate alle mie ossa, quei corpi hanno condiviso con il mio corpo la fluidità del sangue, la tensione dei muscoli», in questo modo, afferma Paola Bianchi, qualcosa di lontano, di estraneo, entra nel suo corpo e si radica in esso.
Danzare l’informe
Distaccandosi dalle mode e dalle retoriche proprie del tempo, l’artista incentra tutti i suoi lavori sul corpo, inteso come insieme unico vivente con la mente: «noi siamo il corpo», per questo è possibile parlare di «io-corpo o noi-corpo» (1). Il corpo è la scrittura del vissuto e al contempo è un corpo esposto alle logiche del biopotere. Per mezzo della sua capacità immaginativa, il corpo danzante, rendendosi presenza, può scardinare le dinamiche che quotidianamente lo trasformano e lo plasmano, ritornando così a una purezza del gesto. Paola Bianchi utilizza «il movimento coreografico come un tramite per riappropriarsi dello spazio, del tempo, della corporeità che tutti attraversiamo/abbiamo, ma di cui pochi sono consapevoli» (2). Una consapevolezza data da uno sguardo esterno - «un censore che pretende l’esattezza dell’esecuzione affidandosi unicamente alla forma» - che è strettamente connesso a uno sguardo interno alla forma, a «ciò che muove la forma, che funge da motore dell’azione» (3), senza il quale la danza sarebbe unicamente una sagoma vuota.
La ricerca di Paola Bianchi si muove verso la verità e credibilità del movimento. Sebbene questi termini possano essere soggetti a fraintendimento, con verità, nel mondo della danza, si intende un qualcosa che ha a che fare con il modo di stare all’interno di un movimento, affinché questo venga vissuto e reso così credibile e non come se «fosse appiccicato su un corpo che non conosce quel movimento nel suo intimo, nella sua natura». Per far sì che un movimento sia vero e credibile deve essere incarnato dal corpo e si può parlare di incarnazione solo se il movimento è generato da un nucleo interno che funge da motore. Non è quindi sufficiente l’apprendimento per mezzo dell’imitazione, dove il mio corpo diventa copia dell’altro corpo: il movimento deve essere attivato dal nucleo da cui originano tensioni, spostamenti, equilibri e relazioni con lo spazio. Con questo intento, Paola Bianchi elimina il suo “corpo di coreografa” come modello da seguire e imitare nel processo di trasmissione della danza, sperimentando l’utilizzo di registrazioni audio contenenti la descrizione di posture del corpo:
Durante una serie di laboratori con danzatori ho verificato quanto la parola descrittiva, seppur precisa e meticolosa, generi nel corpo di ognuno visioni personali, uniche, e quanto questa lavori sull’immaginazione, immaginazione che altro non è che l’azione dell’immagine ovvero il movimento agito in noi dall’immagine esperita. (4)
L’immagine si incarna nei corpi danzanti, prende forma. Una forma che non può essere vuota, ma deve essere colma di senso: «se nel mio movimento manca la motivazione interna di quello che sto facendo, la mia figura perde spessore, rimpicciolisce, diventa un elemento come altri sulla scena, al pari delle scenografie, nel caso in cui ci fossero». La ricerca del senso si ha con il porsi la domanda «perché?». Affinché questo sia possibile, la forma deve essere disfatta, per mezzo della destrutturazione del corpo; inoltre, a ogni singolo gesto deve essere conferita la medesima importanza e necessità. La coreografia non sarà un percorso costituito da un susseguirsi di forme assunte in uno spazio e in un tempo prestabiliti, - non esistono passaggi o movimenti “di servizio” - essa sarà un viaggio nell’informe, un luogo in cui è possibile il sopraggiungere dell’inatteso.
Quello che mi interessa sia come spettatrice sia come danzatrice è l’ESSERE NELLA SCENA in contrapposizione al FARE SULLA SCENA (esecuzione), e il progetto ELP si focalizza intorno alla ricerca dell’essere. Essere nella scena significa portare l’attenzione, la concentrazione dentro il corpo, sentire i punti in cui si appoggia il movimento, dove nasce. È questa una concentrazione estrema, profonda che non esclude alcuna parte del corpo. Il corpo riverbera nella forma che non è mai forma ma, in una continua trasformazione da forma a forma nella rincorsa a cancellare la forma, si palesa come informe. (5)
Sentire la generazione del movimento, il suo cominciamento, determina il danzare l’informe: «la forma prende forma in maniera incomprensibile nel limbo dell’informe e del difforme; l’ordine brancola a lungo nella nebulosa di questo gran disordine materno che è l’inizio del movimento». (6)
Un corpo politico: il corpo della protesta
Il corpo scenico è un corpo politico, così come il teatro è un teatro politico.
POLITICO perché il corpo è la cosa della politica, perché è attraverso il corpo, l’io-corpo che si incide sulla vita pubblica, e un corpo sulla scena non può che essere politico. Ed è lo slittamento della posizione del gesto, l’esposizione del suo lato peggiore, la realizzazione del tanto temuto disfarsi della solidità del nostro stare che fanno nascere il forte desiderio di un movimento che ridia voce al silenzio. (7)
I lavori di Paola Bianchi non sono ritenuti manifesti politici per l’argomento trattato; infatti, i temi scelti dall’artista non sono direttamente politici, ma «lo diventano per l’analisi e per la riflessione che si portano dietro». L’artista, ogni qual volta si trova ad affrontare una nuova ricerca, si interroga sul valore della trasmissione della danza: «se il corpo è politico, quindi l’atto compiuto è un atto pubblico, cosa trasmetto?». La risposta di Paola prende forma con il progetto ELP, in tutte le sue articolazioni, dove gli «archivi retinico mnemonici» fungono da cardini all’azione coreografica.
In NoPolis l’artista intende dare voce a tutti quei corpi taciuti, cancellati dalla sfera pubblica, che negano il concetto chiuso di «stato-nazione» e, per questo motivo, criminalizzati. NoPolis, sebbene appartenga al dispositivo ELP, non è costruito a partire da un archivio conchiuso di un immaginario collettivo, ottenuto tramite una chiamata pubblica come è avvenuto durante le precedenti ricerche. Questa volta, le immagini di riferimento - relative alle proteste verificatesi nel mondo dal 2000 a oggi -, da cui avviare il processo creativo, sono state selezionate direttamente dall’artista assieme ai due musicisti con cui collabora. La scelta è motivata dall’intento di creare un archivio aperto che sia in continua evoluzione, per denotare l’estremo cambiamento a cui il corpo è soggetto, che scaturisce dall’instabilità e dalla velocità che caratterizzano il nostro tempo. Come anticipato precedentemente, NoPolis è un’installazione performativa e salta subito all’occhio l’accostamento inconsueto dei due termini apparentemente in antitesi tra loro: l’installazione prevede una fissazione, una stasi, che si contrappone all’essere in-azione proprio della performance; è dall’attrito di queste parole che nasce la tensione interna del corpo della danzatrice, il quale tende a stare e al contempo a performare. Un corpo che, ottenuta la sua presenza così ricercata e preziosa, cerca di trattenerla e perpetuarla in eterno attraverso il suo movimento effimero. Il corpo danzante, rivestito da un abito rosso acceso, che «sprofonda nell’occhio» e «lacera» (8), chiede di essere guardato. Un corpo che si espone, mostra la sua pelle, le sue ossa, i suoi muscoli e rende visibili i suoi nervi, mentre nasconde il suo volto. «L’anonimato è la risposta alla politica dell’identificazione. Non si tratta semplicemente di nascondersi, bensì di nascondersi per mostrarsi» (9). La danzatrice con questa azione richiede un «diritto all’opacità», mettendosi sullo stesso piano del potere finanziario senza volto. Il volto della danzatrice, che nascondendosi si mostra, diventa il volto di tutte e tutti.
Paola Bianchi per NoPolis non crea una partitura coreografica ben codificata e strutturata; la coreografa precisa che non vi è una curva drammaturgica (10) definita, ovvero la performance è mancante di un inizio e di una conclusione che siano dichiarati in modo esplicito. La danzatrice improvvisa: prima di entrare in scena sfoglia il suo quaderno per ricordare le immagini che costituiscono l’archivio che funge da background dell’improvvisazione; si focalizza sui dettagli, sui piccoli particolari e non su tutta la forma, - in quanto, il suo intento non è quello di ricrearla in modo identico e nella sua totalità. Un archivio dei corpi della protesta suddiviso in cinque parti: sollevazioni, repressioni, resistenze passive, catalogo braccia e catalogo gambe. Questo è il quadro normativo da seguire e trasgredire. Il suo agire non è in nessun modo un agire ‘a caso’; il corpo destrutturato, rotto, scomposto, si espande percorrendo, e senza mai sostare, le forme prestabilite costituenti l’archivio di posture dei corpi della protesta.
La danza si sviluppa all’interno di un quadrato, delineato dalle luci di scena, caratterizzata da un’estrema lentezza data dall’ascolto, da parte della danzatrice, della pesantezza del corpo e della stanchezza che si accumulano con lo scorrere del tempo.
La danzatrice genera il suo movimento a partire da una tensione interna, la quale funge da fonte di contrasto e di rottura. Il corpo della protesta, incarnato dal corpo danzante, è sempre attivo, in stato di allerta e allo stesso tempo si incrina, mostrando le sue crepe e le sue pieghe. Paola decide di lavorare su questa qualità di movimento, poiché l’idea della destrutturazione del corpo recupera «l’agire contro» proprio di questi corpi (11). Judith Butler, nel suo libro L’Alleanza dei Corpi, assevera: «è la persistenza del corpo, nella sua esposizione, a mettere in discussione la legittimità statale, e lo fa proprio attraverso una specifica forma di performatività». (12)
Una performance di protesta in continua formazione e trasformazione creata dal dialogo tra il corpo danzante, il suono e la luce. Traspare all’occhio dello spettatore un flusso continuo determinato dalla tensione e dalla lentezza del corpo, che viene rotto da una voce femminile, dal rumore flebile di un bombardamento in un luogo lontano, dal suono delle eliche di un elicottero, oppure dall’emergenza di un dettaglio del corpo che rimanda a un segno che diventa perturbante, data la mescolanza di un’immediata riconoscibilità e una forte decontestualizzazione. Quando sembra esserci una fine, in realtà vi è l’inizio di un nuovo e continuo «atto di sollevazione per affrontare il potere dal punto più alto possibile». (13)
Il tempo ‘nella' scena
Il tempo è uno degli elementi cardine della danza e della costruzione coreografica. Paola Bianchi parla di tempo ‘nella' scena e non di tempo ‘della’ scena, riferendosi alla percezione interna del tempo di chi abita la scena.
Nel corso dell’elaborato è stata ripresa più volte la coincidenza che vi è tra il momento della esecuzione e della composizione durante l’improvvisazione, tanto che è possibile parlare di una “messa in scena” della creatività. Nella composizione, in quanto costruzione predeterminata e decisa prima dell’atto performativo, vi è una discontinuità tra il tempo della creazione e quello dell’esecuzione.
Nell’atto di agire una coreografia non c’è un PRIMA, non c’è mai. Il PRIMA esiste nell’atto compositivo, nella coreografia stessa, nella sua creazione, ma non nel suo agire. Il PRIMA sparisce nell’istante in cui diventa PRIMA e io non ci sono più, c’è il ricordo del mio essere stato, c’è lo stato attuale del mio corpo - stanco, sudato, in tensione o meno - ma quel prima è svanito, è svanito nella memoria corporea, è svanito nella tensione verso il DOPO, nella concentrazione dell’azione in atto. C’è un MENTRE, la cui durata non è misurabile, e c’è un DOPO. Nel MENTRE il DOPO è già presente, è già in atto il pensiero corporeo del DOPO. Sarebbe impossibile non avere il corpo che pensa il DOPO, la coreografia si interromperebbe. Il corpo è nel MENTRE, ma è anche proiettato verso il DOPO, in tensione verso il movimento successivo. È un processo inevitabile di sdoppiamento della presenza: un sono e sarò continui e compresenti.
È possibile allora un MENTRE senza il pensiero del DOPO? (14)
La risposta è affermativa: l’improvvisazione è uno stare «nel mentre del tempo». Quando si improvvisa sussiste il paradosso epistemologico di «sapere e non sapere». La mancanza di un pensiero verso il ‘dopo’ è indice della non conoscenza del gesto che verrà compiuto. Nulla è predeterminato; ogni azione «è l’azione nel suo farsi, nel suo essere azione» (15).
Paola, descrive in questo modo la sua esperienza dell’improvvisazione: perdita totale della durata, perdita dell’orientamento spaziale ma con una nitida coscienza istintiva dello spazio (intendo dire che non c’è stato un disegno, un lavoro sullo spazio, c’è stato solo istinto a volte guidato dalle luci, a volte incurante delle luci), completa dimenticanza del movimento passato, totale non-pianificazione del movimento successivo. È stato come essere in trance, ma una trance istintiva e cosciente, dove forse la conoscenza approfondita del luogo scenico si è attivata a livello animale, senza un’elaborazione mentale. Il corpo pensante ha agito in totale autonomia. La cosa sconvolgente è stata l’annullamento del ricordo, l’impermanenza dell’atto con una traccia nitida di memoria corporea non modificabile, irripetibile, impossibile da ritrovare perché fuori dalla coscienza, un vero atto effimero. (16)
* Il testo fa parte di Il corpo danzante, tra automatismo e improvvisazione tesi di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche, Università degli Studi di Firenze Anno Accademico 2020/2021, p. 88 - 98.
(1) P. Bianchi, Corpo politico. Distopia del gesto utopia del movimento, a cura di Silvia Bottiroli e Silvia Parlagreco, Editoria & Spettacolo, Spoleto 2014
(2) E. Piergiacomi, La risorgenza dei festival. Paola Bianchi e Virgilio Sieni: asciugare un’immagine, «Doppiozero», 24 luglio 2020
(3) P. Bianchi, Make the Dance Audible, in Teatro Akropolis - Testimonianze ricerca azioni, Vol. 9, a c. di C. Tafuri, D. Beronio, AkropolisLibri, 2018, p. 80
(4) P. Bianchi, Make the Dance Audible, in Teatro Akropolis - Testimonianze ricerca azioni, Vol. 9, a c. di C. Tafuri, D. Beronio, AkropolisLibri, 2018, p. 84
(5) Conversazione con Paola Bianchi, aprile 2021
(6) V. Jannkélévitch, De l’improvisation, Edition Flammarion, Paris 1998; trad. it. di A. Arbo, Dell’improvvisazione, Solfanelli 2014, p. 20
(7) P. Bianchi, Corpo politico. Distopia del gesto utopia del movimento, cit.
(8) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Librarie Gallimard, Paris 1945; trad. it. A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Firenze-Milano 2018, p. 287
(9) Donatella di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2020 pp. 89-90
(10) Per Paola Bianchi «la drammaturgia è la direzione profonda dello spettacolo»; sulla drammaturgia, Cfr. P. Bianchi, Corpo Politico. Distopia del gesto utopia del movimento, cit., pp. 31-66
(11) Conversazione con Paola Bianchi, aprile 2021
(12) J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017, p. 134
(13) Paola Bianchi adotta la formula dell’artista Riccardo Benassi nelle citazioni, ovvero «come mi ha detto Didi-Huberman la protesta è un atto di sollevazione per affrontare il potere dal punto più alto possibile», al posto della dicitura «come dice Didi-Huberman […]». In tal modo, la danzatrice sottolinea quanto per lei la lettura sia un rapporto intimo, un incontro ravvicinato con l’autore, poiché, afferma Paola: «le parole scritte da Didi-Huberman (che prendo come esempio) non sono le stesse per tutte e tutti, ma sono filtrate dal nostro pensiero, dal nostro corpo, dalla nostra capacità, dal momento in cui le leggiamo. In un dato momento sono colpita da una frase ma se rileggo lo stesso libro dopo tempo sarò colpita da altro. I colpi della cultura sono colpi forti, personali e intimi, colpi che ci mettono a nudo e che presuppongono un’intimità. La voce di Didi-Huberman non è la stessa per chiunque. Il suono della sua voce così come quello che ha scritto arrivano a noi per mezzo di un lavoro personale che può addirittura trascendere l’intenzione dell’autore».
(14) (15) (16) P. Bianchi, Nel mentre del tempo, a c. di Roberto Castello, «93% Materiali per una politica non verbale», n.11, maggio 2019
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