RELAZIONI

Paola Bianchi 
ESSERE CORPO NELLA SCENA*

Eliminare il modello

Le immagini entrano dentro il corpo attraverso gli occhi, lì si depositano, sostano e lentamente ne modificano le posture attraverso un processo imitativo volontario e involontario. Durante l’atto di trasmissione della danza, ovvero quando la mia funzione è esclusivamente legata alla coreografia, le immagini che il mio corpo genera sono veicolo di imitazione volontaria da parte di chi interpreta la coreografia. Ma cosa succede se le immagini generate dal mio corpo vengono trasmesse attraverso le orecchie? Cosa genera la descrizione verbale di una postura nel corpo di chi la incarna? Queste le prime domande che hanno avviato nel 2018 il progetto di ricerca coreografica ELP. 
In questi anni ho affinato un metodo (inteso letteralmente come via per giungere a un determinato scopo) che prevede l’eliminazione del mio corpo di coreografa come modello da seguire e imitare e ciò avviene attraverso la trasmissione via audio di archivi di posture generati da immagini incarnate precedentemente dal mio corpo. Le posture presenti nei miei soli di danza facenti parte del progetto ELP sono state descritte a parole e registrate in file audio. La descrizione è esclusivamente anatomica e non prevede alcuna “sensazione” aggiuntiva, alcuna indicazione legata alla modalità di incarnazione della postura, alcuna indicazione coreografica: è semplicemente una posizione del corpo. Tale posizione viene incarnata in modo assolutamente personale; ogni individuo riceve l’istruzione via audio e incarna la postura nel modo in cui la comprende e nel modo in cui il suo corpo la capisce e la sente, ogni personalizzazione della postura è quindi benaccetta. 

Il metodo che conduce alla creazione degli spettacoli in cui sono coinvolte altre persone in qualità di interpreti prevede una serie di passaggi. Prendo come esempio concreto il lavoro svolto con Barbara Carulli per la creazione del solo di danza Other OtherNess.

- Ho consegnato a Barbara quattro tracce audio contenenti le descrizioni dettagliate di quattro posture del corpo chiedendole di incarnarle e memorizzarle. Una volta memorizzate gliene ho consegnate altre quattro e poi ancora fino a raggiungere un numero adeguato alla creazione di una prima partitura. 

- Le ho poi chiesto di nominare le posture e di unirle fino a creare una partitura unica di movimento. È importante nominare le posture per fare in modo che diventino parte della propria partitura, che si connettano a un pensiero, a un’immagine personale, un rimando necessario per riempire di senso la forma. Fino a questo momento il mio compito è esclusivamente legato all’osservazione del processo di incarnazione da parte dell’interprete e le descrizioni delle posture iniziano a risuonare come un’eco lontana.

- Solo dopo la visione della partitura creata da Barbara è iniziato il vero lavoro coreografico. La mia funzione si è “limitata” a scardinare la sequenza (parola bandita dal mio vocabolario coreografico) per farla vivere istante dopo istante, cosa che può avvenire solo eliminando le “transizioni” tra una postura e l’altra ed eliminando le posture stesse: ogni istante della partitura deve essere il momento più importante, la presenza del corpo non può vacillare mai. L’ho spinta allora a sentire il corpo, a individuare i punti in cui le forze interne al corpo si appoggiano, le pieghe in cui nasce il movimento, ogni movimento. Le ho chiesto il perché di ogni piccolo movimento, senza pretendere risposte verbali ma aspettando risposte dal suo corpo. 
Ogni piccolo movimento deve avere ragione di esistere, deve essere motivato dal corpo, da una narrazione interna al corpo. Eliminando ogni forma di giudizio, cerco la “verità” del movimento, la sua vita, e non la sua bellezza estetica. Attraverso le mie domande metto in crisi le certezze del corpo in azione, provo a eliminare le sue abitudini, le sue sicurezze per portare il corpo a essere nella scena e non a fare sulla scena. Il mio compito è quindi quello di aiutare l’interprete a riempire la forma di contenuto, a distruggere la forma per far sì che in ogni istante il corpo sia presente. A partire da ciò che inizia a scaturire da questa nuova partitura, creo lo spazio dell’azione, lascio lavorare il mio pensiero fino a individuare il “luogo” di quell’azione che nel caso di Other OtherNess si è concretizzato nelle proporzioni della pianta de La Zattera della Medusa di Théodore Géricault. Inizio allora a orientare quel corpo nello spazio, a creare la relazione con lo spazio, lo porto a essere abitato dal tempo, dal ritmo, verifico costantemente la sua potenza e la sua fragilità, individuo i punti deboli per scavare dentro quelle debolezze. 

Una cosa non ho mai fatto da quando ho iniziato a lavorare con il metodo ELP: mostrare la mia forma, il mio corpo in azione, spingere verso l’imitazione del mio movimento; e proprio questo significa eliminare il mio corpo di coreografa come modello da imitare. La mia presenza in sala è però costante, è protesa nella creazione della coreografia, coreografia che è fatta di corpo (forma del corpo e forza del corpo), di spazio e di tempo. 
L’incarnazione delle tracce audio genera una danza, non una coreografia. Sono il lavoro di scavo costante, la visione attenta, la creazione delle relazioni con lo spazio e il tempo a creare la coreografia, e poi l’individuazione del senso del lavoro che si sta creando attraverso la relazione con il disegno luci e prima ancora con la composizione musicale. Ciò che nasce dalla trasmissione via audio di posture o di volumi del corpo è qualcosa che trascende le mie intenzioni. La scrittura coreografica non passa attraverso un concetto stabilito a priori, una drammaturgia di senso e di spazio, ma è come se avesse vita propria, nasce senza forzature, senza intenzioni. Un’autonomia di senso che mi sorprende ogni volta. 

Eliminare il proprio corpo significa sottrarsi all’imitazione ridicola del movimento ma non significa escludersi dal processo di creazione. Significa accettare altri corpi senza tentare di plasmarli a propria immagine e somiglianza, dare spazio a quei corpi accogliendone le diversità; significa spingere l’interprete a percepire il proprio corpo come unico; significa aiutare l’interprete a riempire la forma di contenuto, a distruggere la forma per far sì che in ogni istante il corpo sia presente; non significa negare la propria autorialità ma opporsi alla gerarchia di potere.
L’eliminazione del mio corpo di coreografa come modello da seguire e imitare porta inevitabilmente a una ricerca personale, a una qualità di movimento non imposta dall’esterno.

Ma cosa succede se questo metodo di trasmissione viene applicato a me stessa? Se la mia stessa voce diventa guida, dettatura che non concede respiro, che non permette l’apertura di un campo di azione svincolata dalla partitura scritta e registrata in voce? Cosa significa incarnare posture frammentate?


Auto-eterodirezione 

La forma del vivente, quando cessa di vivere, partorisce qualcosa che non è l’informe per semplice negazione - per semplice scomparsa, per semplice privazione - ma l’informe per sopravvivenza, l’informe dotato della capacità di proliferazione, manifestata dalle colonie di microbi, dai mucchi di vermi brulicanti, dagli sciami di mosche o dalle brigate di fantasmi. In questo processo il panneggio è sempre presente: supplemento di grazia nella figurazione umana, diventa supplemento d’orrore nella carogna disumana.
Georges Didi-Huberman 


ASSIMILIA è il risultato di una lunga analisi intorno al corpo come luogo di deposito delle immagini, e di un lungo processo di ricerca che si è sviluppato attraverso alcuni passaggi:
- creazione di tre archivi retinico-mnemonici (memorie occidentali, altre memorie, corpi della protesta) attraverso il coinvolgimento di tre gruppi di 40 persone a ognuna delle quali è stato chiesto di individuare le immagini fissate nella memoria visiva personale e collettiva, immagini simbolo che sottolineano un cambiamento del corso della Storia, immagini iconiche che si fissano nella memoria personale proprio per la loro valenza collettiva.
- Incarnazione delle immagini ricevute in diverse partiture di danza che confluiscono in una creazione scenica, un solo di danza. Il mio corpo diventa esso stesso archivio e deposito di immagini corporee in un processo di riattualizzazione organica della Storia. 
- Ogni solo è stato sezionato e le posture di cui il solo è composto sono state descritte verbalmente e registrate in voce diventando file audio e andando a costituire tre archivi di posture.
- Le posture presenti negli archivi sono state dissezionate e catalogate secondo una logica anatomica (posizioni del corpo / del braccio destro / del braccio sinistro / del busto / della testa / della gamba destra / della gamba sinistra). Le posture sono diventate allora pezzi di corpo separati uno dall’altro (archivi frantumati), sono stati mischiati secondo una logica aleatoria e registrati in voce, andando a generare figure e non più immagini.

Frantumare le posture è stato un passaggio inevitabile, un passo necessario per avviare nuovi pensieri intorno al corpo nella scena. Un’indagine che si spinge dentro la rigidità della regola e che tenta di salvare quel corpo.
Una messa in discussione della volontà, dell’interpretazione, dell’integrità del corpo e di conseguenza dell’autorialità. Ecco qui si ribalta il punto di vista, qui l’autorialità viene cancellata dall’obbedienza alla parola che impone, che determina il movimento, lo spazio, l’azione.

panneggio
piega
estensione - intensità
inerenza
inviluppo 
polvere
materia abortita
inorganico

imposizione costante 
movimento dettato dall’esterno
la mia voce determina le azioni | io sono altro da lei

il ritmo è cruciale

Il tempo diventa allora il tempo della voce dove ogni variazione di tensione del corpo deve per forza di cose giocare con lo spazio bianco tra una parola e l’altra senza però seguirne il ritmo all’unisono. 

auto-eterodirezione
    figure isolate
        isolamento della figura
            il corpo è la figura
soggetto e oggetto insieme
distruggere la chiarezza con la chiarezza
ciò che accade o è già accaduto o è sul punto di accadere
dissezione del corpo
    un corpo fatto a pezzi
        autopsia delle posture
            montaggio de-anatomico
il corpo si piega su sé stesso

indecenza è parola importante per lo stato del corpo

In scena avviene una sorta di sdoppiamento ed è come se il mio modo di stare nella scena tornasse ogni volta alla radice del movimento di partenza, ripercorresse la strada al contrario, andando a scavare nell’indecenza del corpo. C’è una continua resistenza alla dettatura, al ritmo esterno: il corpo deve resistere per non diventare vuoto, deve opporsi all’obbedienza pur obbedendo, deve concentrarsi sui dettagli, sulle sfumature, deve urlare senza voce.

lavorando perdo l’orientamento, non so dove sono, mi perdo. la concentrazione sull’ascolto e la conseguente esecuzione delle mie/sue parole dette/dettate mi portano a non sapere cosa succede fuori, sono isolata 

Non so nulla, non ho idea di cosa succeda dall’esterno, non ho la percezione della visione esterna, del suono e delle luci. Sensazione nuova e spiazzante. È come se non avessi controllo della scena. La concentrazione nell’ascolto mi riporta costantemente verso l’interno, mi impedisce quel rapporto dialettico con lo sguardo. Mi viene in aiuto Roberta Nicolai, diventa lei lo sguardo interno che comprende la visione dall’esterno; orienta le figure, diventa la bussola di uno spazio che ancora non ha un fronte. Insieme iniziamo ad afferrare il senso del disegno coreografico, lo spazio si chiarisce e le figure prendono vita. Ma solo dopo la prima presentazione davanti a un pubblico mi sono resa conto di ciò che ho fatto, ho capito il senso del lavoro, ho iniziato a comprendere il percorso creato dal corpo. Le parole di chi ha visto mi hanno restituito il senso di ciò che ho fatto regalandomi lo stupore di un pensiero sotteso ma non volutamente espresso. 
Un corpo non più libero di muoversi nello spazio, costretto da una partitura registrata in voce, un corpo che non può scegliere, un corpo intrappolato nell’eterno conflitto tra l’interno e l’esterno, tra ciò che deve e ciò che vuole. Uno stato dell’essere nella scena che chiama in causa la solitudine dell’essere umano contemporaneo, condizionato sin dalla nascita da una doppia condizione: da un lato la propria volontà, il proprio desiderio, dall’altro il dovere, gli obblighi legati alla convivenza in comunità e alla morale. Mai completamente liberi, agiamo in un continuo compromesso tra l’interno e l’esterno, tra legge e autonomia, tra ciò che desideriamo fare e ciò che dobbiamo fare. Chiusi in un recinto ben definito di leggi e doveri morali ci troviamo nell’illusione di scelta, illusione che svanisce nel momento in cui ci rendiamo conto che possiamo scegliere solo tra qualcosa che ci è dato. 

biforcazioni | caduta
tensioni | compromessi | condensazioni | spostamenti
dinamica di biforcazioni
inversioni dinamiche

Cosa resta della mia autorialità? Come possono agire le forze interne sulle quali si appoggia e nasce ogni movimento, se le azioni coreografiche nascono dall’esterno? Come può l’interno spingere se non conosce il momento successivo? Quanto è dilatabile quella zona di confine tra l’interprete e l’autrice? A quale immaginario mi connetto? L’immaginario non esiste, non c’è tempo per una connessione tra immagine e corpo, la voce procede, e la sensazione è quella di essere rotta, disconnessa, frammentata. Allora lo sforzo più grande è quello di salvare la danza, di non farla diventare una mera esecuzione di azioni, di non cadere nel fare sulla scena. Una lotta interna prende vita, tra obbedire e vivere, tra fare e essere. Una sfida che a ogni replica si riaccende. 

*Il testo è stato pubblicato in C. Tafuri D. Beronio, Teatro Akropolis Testimonianze ricerca azioni, Volume dodicesimo, Genova, AkropolisLibri 2022


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Barbara Carulli
NoPolis di Paola Bianchi *


Mi rivolto, dunque siamo.
Albert Camus 
    Archivi
Paola Bianchi è una coreografa e danzatrice attiva sulla scena italiana dagli anni 80’. Si forma presso la scuola Bella Hutter di Torino e dopo una prima esperienza come danzatrice nella compagnia di Anna Sagna inizia la sua carriera come autrice. Il fermento politico e culturale degli anni 70’-80’ e la rivoluzione che stava avvenendo nel mondo della danza - il passaggio dalla danza modern alla danza contemporanea - si sono rivelati elementi cruciali per il suo sviluppo artistico.
Di seguito, ai fini della mia ricerca, prenderò in esame l’ultima creazione intitolata NoPolis, presentata per la prima volta durante la quattordicesima edizione del festival Teatri di Vetro, presso il teatro India di Roma. NoPolis è un’istallazione performativa appartenente al dispositivo di ricerca ELP (ethos, logos, pathos), un progetto che l’artista porta avanti dal 2018 incentrato sui processi di incarnazione e di trasmissione di un immaginario collettivo. Nell’epoca «dell’immaginazione lacerata», come direbbe Didi-Huberman, Paola Bianchi ha indetto una chiamata pubblica al fine di raccogliere le immagini «impresse nella retina», ovvero quelle immagini che appartengono a una memoria storica e culturale comune, collegando gli intimi ricordi agli eventi pubblici. A partire da questo esercizio mnemonico ed emotivo richiesto ai partecipanti, l’artista, attraverso uno studio ermeneutico delle molteplici immagini ricevute, ha poi sviluppato una «coreografia di pelle, una poetica del corpo muto». Il corpo dell’artista diventa quindi un archivio di posture che mette in luce quanto il corpo stesso sia inscritto nel contesto storico e sociale a cui appartiene, in particolare modo se si tiene conto di una prospettiva antropologica e semiologica, la quale considera il corpo un costrutto regolato dalla cultura estetica e dalla società.
Paola Bianchi ha costruito tre archivi di immagini: il primo composto dalle «memorie occidentali», dal quale ha luogo lo spettacolo Energheia; il secondo chiamato «altre memorie», le cui immagini sono state fornite da persone con background migratorio, dal quale ha origine lo spettacolo O_N; infine, vi è l’«archivio dei corpi della protesta»  costruito per NoPolis.
Se l’archivio «retinico mnemonico» dato dalle immagini occidentali costituisce un immaginario riconoscibile per l’artista, tanto che il corpo «anche nella più terribile delle immagini incarnate, ha trovato un agio nello stare, un agio dovuto alla conoscenza profonda delle ferite», allora, per poter intraprendere un nuovo processo di incarnazione, diviene necessaria e conseguente la domanda «che cosa sono per me invece quei corpi stranieri?». «Affrontate dai bordi, dai margini, quelle immagini si sono attaccate alle mie ossa, quei corpi hanno condiviso con il mio corpo la fluidità del sangue, la tensione dei muscoli», in questo modo, afferma Paola Bianchi, qualcosa di lontano, di estraneo, entra nel suo corpo e si radica in esso. 

    Danzare l’informe

Distaccandosi dalle mode e dalle retoriche proprie del tempo, l’artista incentra tutti i suoi lavori sul corpo, inteso come insieme unico vivente con la mente: «noi siamo il corpo», per questo è possibile parlare di «io-corpo o noi-corpo» (1). Il corpo è la scrittura del vissuto e al contempo è un corpo esposto alle logiche del biopotere. Per mezzo della sua capacità immaginativa, il corpo danzante, rendendosi presenza, può scardinare le dinamiche che quotidianamente lo trasformano e lo plasmano, ritornando così a una purezza del gesto. Paola Bianchi utilizza «il movimento coreografico come un tramite per riappropriarsi dello spazio, del tempo, della corporeità che tutti attraversiamo/abbiamo, ma di cui pochi sono consapevoli» (2). Una consapevolezza data da uno sguardo esterno - «un censore che pretende l’esattezza dell’esecuzione affidandosi unicamente alla forma» - che è strettamente connesso a uno sguardo interno alla forma, a «ciò che muove la forma, che funge da motore dell’azione» (3), senza il quale la danza sarebbe unicamente una sagoma vuota. 

La ricerca di Paola Bianchi si muove verso la verità e credibilità del movimento. Sebbene questi termini possano essere soggetti a fraintendimento, con verità, nel mondo della danza, si intende un qualcosa che ha a che fare con il modo di stare all’interno di un movimento, affinché questo venga vissuto e reso così credibile e non come se «fosse appiccicato su un corpo che non conosce quel movimento nel suo intimo, nella sua natura». Per far sì che un movimento sia vero e credibile deve essere incarnato dal corpo e si può parlare di incarnazione solo se il movimento è generato da un nucleo interno che funge da motore. Non è quindi sufficiente l’apprendimento per mezzo dell’imitazione, dove il mio corpo diventa copia dell’altro corpo: il movimento deve essere attivato dal nucleo da cui originano tensioni, spostamenti, equilibri e relazioni con lo spazio. Con questo intento, Paola Bianchi elimina il suo “corpo di coreografa” come modello da seguire e imitare nel processo di trasmissione della danza, sperimentando l’utilizzo di registrazioni audio contenenti la descrizione di posture del corpo:


Durante una serie di laboratori con danzatori ho verificato quanto la parola descrittiva, seppur precisa e meticolosa, generi nel corpo di ognuno visioni personali, uniche, e quanto questa lavori sull’immaginazione, immaginazione che altro non è che l’azione dell’immagine ovvero il movimento agito in noi dall’immagine esperita. (4)


L’immagine si incarna nei corpi danzanti, prende forma. Una forma che non può essere vuota, ma deve essere colma di senso: «se nel mio movimento manca la motivazione interna di quello che sto facendo, la mia figura perde spessore, rimpicciolisce, diventa un elemento come altri sulla scena, al pari delle scenografie, nel caso in cui ci fossero». La ricerca del senso si ha con il porsi la domanda «perché?». Affinché questo sia possibile, la forma deve essere disfatta, per mezzo della destrutturazione del corpo; inoltre, a ogni singolo gesto deve essere conferita la medesima importanza e necessità. La coreografia non sarà un percorso costituito da un susseguirsi di forme assunte in uno spazio e in un tempo prestabiliti, - non esistono passaggi o movimenti “di servizio” - essa sarà un viaggio nell’informe, un luogo in cui è possibile il sopraggiungere dell’inatteso.


Quello che mi interessa sia come spettatrice sia come danzatrice è l’ESSERE NELLA SCENA in contrapposizione al FARE SULLA SCENA (esecuzione), e il progetto ELP si focalizza intorno alla ricerca dell’essere. Essere nella scena significa portare l’attenzione, la concentrazione dentro il corpo, sentire i punti in cui si appoggia il movimento, dove nasce. È questa una concentrazione estrema, profonda che non esclude alcuna parte del corpo. Il corpo riverbera nella forma che non è mai forma ma, in una continua trasformazione da forma a forma nella rincorsa a cancellare la forma, si palesa come informe. (5)  


Sentire la generazione del movimento, il suo cominciamento, determina il danzare l’informe: «la forma prende forma in maniera incomprensibile nel limbo dell’informe e del difforme; l’ordine brancola a lungo nella nebulosa di questo gran disordine materno che è l’inizio del movimento». (6)

    Un corpo politico: il corpo della protesta 


Il corpo scenico è un corpo politico, così come il teatro è un teatro politico. 


POLITICO perché il corpo è la cosa della politica, perché è attraverso il corpo, l’io-corpo che si incide sulla vita pubblica, e un corpo sulla scena non può che essere politico. Ed è lo slittamento della posizione del gesto, l’esposizione del suo lato peggiore, la realizzazione del tanto temuto disfarsi della solidità del nostro stare che fanno nascere il forte desiderio di un movimento che ridia voce al silenzio. (7) 


I lavori di Paola Bianchi non sono ritenuti manifesti politici per l’argomento trattato; infatti, i temi scelti dall’artista non sono direttamente politici, ma «lo diventano per l’analisi e per la riflessione che si portano dietro». L’artista, ogni qual volta si trova ad affrontare una nuova ricerca, si interroga sul valore della trasmissione della danza: «se il corpo è politico, quindi l’atto compiuto è un atto pubblico, cosa trasmetto?». La risposta di Paola prende forma con il progetto ELP, in tutte le sue articolazioni, dove gli «archivi retinico mnemonici» fungono da cardini all’azione coreografica. 
In NoPolis l’artista intende dare voce a tutti quei corpi taciuti, cancellati dalla sfera pubblica, che negano il concetto chiuso di «stato-nazione» e, per questo motivo, criminalizzati. NoPolis, sebbene appartenga al dispositivo ELP, non è costruito a partire da un archivio conchiuso di un immaginario collettivo, ottenuto tramite una chiamata pubblica come è avvenuto durante le precedenti ricerche. Questa volta, le immagini di riferimento - relative alle proteste verificatesi nel mondo dal 2000 a oggi -, da cui avviare il processo creativo, sono state selezionate direttamente dall’artista assieme ai due musicisti con cui collabora. La scelta è motivata dall’intento di creare un archivio aperto che sia in continua evoluzione, per denotare l’estremo cambiamento a cui il corpo è soggetto, che scaturisce dall’instabilità e dalla velocità che caratterizzano il nostro tempo. Come anticipato precedentemente, NoPolis è un’installazione performativa e salta subito all’occhio l’accostamento inconsueto dei due termini apparentemente in antitesi tra loro: l’installazione prevede una fissazione, una stasi, che si contrappone all’essere in-azione proprio della performance; è dall’attrito di queste parole che nasce la tensione interna del corpo della danzatrice, il quale tende a stare e al contempo a performare. Un corpo che, ottenuta la sua presenza così ricercata e preziosa, cerca di trattenerla e perpetuarla in eterno attraverso il suo movimento effimero. Il corpo danzante, rivestito da un abito rosso acceso, che «sprofonda nell’occhio» e «lacera» (8), chiede di essere guardato. Un corpo che si espone, mostra la sua pelle, le sue ossa, i suoi muscoli e rende visibili i suoi nervi, mentre nasconde il suo volto. «L’anonimato è la risposta alla politica dell’identificazione. Non si tratta semplicemente di nascondersi, bensì di nascondersi per mostrarsi» (9). La danzatrice con questa azione richiede un «diritto all’opacità», mettendosi sullo stesso piano del potere finanziario senza volto. Il volto della danzatrice, che nascondendosi si mostra, diventa il volto di tutte e tutti. 
Paola Bianchi per NoPolis non crea una partitura coreografica ben codificata e strutturata; la coreografa precisa che non vi è una curva drammaturgica (10) definita, ovvero la performance è mancante di un inizio e di una conclusione che siano dichiarati in modo esplicito. La danzatrice improvvisa: prima di entrare in scena sfoglia il suo quaderno per ricordare le immagini che costituiscono l’archivio che funge da background dell’improvvisazione; si focalizza sui dettagli, sui piccoli particolari e non su tutta la forma, - in quanto, il suo intento non è quello di ricrearla in modo identico e nella sua totalità. Un archivio dei corpi della protesta suddiviso in cinque parti: sollevazioni, repressioni, resistenze passive, catalogo braccia e catalogo gambe. Questo è il quadro normativo da seguire e trasgredire. Il suo agire non è in nessun modo un agire ‘a caso’; il corpo destrutturato, rotto, scomposto, si espande percorrendo, e senza mai sostare, le forme prestabilite costituenti l’archivio di posture dei corpi della protesta. 
La danza si sviluppa all’interno di un quadrato, delineato dalle luci di scena, caratterizzata da un’estrema lentezza data dall’ascolto, da parte della danzatrice, della pesantezza del corpo e della stanchezza che si accumulano con lo scorrere del tempo.
La danzatrice genera il suo movimento a partire da una tensione interna, la quale funge da fonte di contrasto e di rottura. Il corpo della protesta, incarnato dal corpo danzante, è sempre attivo, in stato di allerta e allo stesso tempo si incrina, mostrando le sue crepe e le sue pieghe. Paola decide di lavorare su questa qualità di movimento, poiché l’idea della destrutturazione del corpo recupera «l’agire contro» proprio di questi corpi (11). Judith Butler, nel suo libro L’Alleanza dei Corpi, assevera: «è la persistenza del corpo, nella sua esposizione, a mettere in discussione la legittimità statale, e lo fa proprio attraverso una specifica forma di performatività». (12) 
Una performance di protesta in continua formazione e trasformazione creata dal dialogo tra il corpo danzante, il suono e la luce. Traspare all’occhio dello spettatore un flusso continuo determinato dalla tensione e dalla lentezza del corpo, che viene rotto da una voce femminile, dal rumore flebile di un bombardamento in un luogo lontano, dal suono delle eliche di un elicottero, oppure dall’emergenza di un dettaglio del corpo che rimanda a un segno che diventa perturbante, data la mescolanza di un’immediata riconoscibilità e una forte decontestualizzazione. Quando sembra esserci una fine, in realtà vi è l’inizio di un nuovo e continuo «atto di sollevazione per affrontare il potere dal punto più alto possibile». (13)


    Il tempo ‘nella' scena

Il tempo è uno degli elementi cardine della danza e della costruzione coreografica. Paola Bianchi parla di tempo ‘nella' scena e non di tempo ‘della’ scena, riferendosi alla percezione interna del tempo di chi abita la scena.
Nel corso dell’elaborato è stata ripresa più volte la coincidenza che vi è tra il momento della esecuzione e della composizione durante l’improvvisazione, tanto che è possibile parlare di una “messa in scena” della creatività. Nella composizione, in quanto costruzione predeterminata e decisa prima dell’atto performativo, vi è una discontinuità tra il tempo della creazione e quello dell’esecuzione.


Nell’atto di agire una coreografia non c’è un PRIMA, non c’è mai. Il PRIMA esiste nell’atto compositivo, nella coreografia stessa, nella sua creazione, ma non nel suo agire. Il PRIMA sparisce nell’istante in cui diventa PRIMA e io non ci sono più, c’è il ricordo del mio essere stato, c’è lo stato attuale del mio corpo - stanco, sudato, in tensione o meno - ma quel prima è svanito, è svanito nella memoria corporea, è svanito nella tensione verso il DOPO, nella concentrazione dell’azione in atto. C’è un MENTRE, la cui durata non è misurabile, e c’è un DOPO. Nel MENTRE il DOPO è già presente, è già in atto il pensiero corporeo del DOPO. Sarebbe impossibile non avere il corpo che pensa il DOPO, la coreografia si interromperebbe. Il corpo è nel MENTRE, ma è anche proiettato verso il DOPO, in tensione verso il movimento successivo. È un processo inevitabile di sdoppiamento della presenza: un sono e sarò continui e compresenti.

È possibile allora un MENTRE senza il pensiero del DOPO? (14)


La risposta è affermativa: l’improvvisazione è uno stare «nel mentre del tempo». Quando si improvvisa sussiste il paradosso epistemologico di «sapere e non sapere». La mancanza di un pensiero verso il ‘dopo’ è indice della non conoscenza del gesto che verrà compiuto. Nulla è predeterminato; ogni azione «è l’azione nel suo farsi, nel suo essere azione» (15).
Paola, descrive in questo modo la sua esperienza dell’improvvisazione: 

perdita totale della durata, perdita dell’orientamento spaziale ma con una nitida coscienza istintiva dello spazio (intendo dire che non c’è stato un disegno, un lavoro sullo spazio, c’è stato solo istinto a volte guidato dalle luci, a volte incurante delle luci), completa dimenticanza del movimento passato, totale non-pianificazione del movimento successivo. È stato come essere in trance, ma una trance istintiva e cosciente, dove forse la conoscenza approfondita del luogo scenico si è attivata a livello animale, senza un’elaborazione mentale. Il corpo pensante ha agito in totale autonomia. La cosa sconvolgente è stata l’annullamento del ricordo, l’impermanenza dell’atto con una traccia nitida di memoria corporea non modificabile, irripetibile, impossibile da ritrovare perché fuori dalla coscienza, un vero atto effimero. (16)



* Il testo fa parte di Il corpo danzante, tra automatismo e improvvisazione tesi di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche, Università degli Studi di Firenze Anno Accademico 2020/2021, p. 88 - 98.


(1) P. Bianchi, Corpo politico. Distopia del gesto utopia del movimento, a cura di Silvia Bottiroli e Silvia Parlagreco, Editoria & Spettacolo, Spoleto 2014

(2) E. Piergiacomi, La risorgenza dei festival. Paola Bianchi e Virgilio Sieni: asciugare un’immagine, «Doppiozero», 24 luglio 2020

(3) P. Bianchi, Make the Dance Audible, in Teatro Akropolis - Testimonianze ricerca azioni, Vol. 9, a c. di C. Tafuri, D. Beronio, AkropolisLibri, 2018, p. 80

(4) P. Bianchi, Make the Dance Audible, in Teatro Akropolis - Testimonianze ricerca azioni, Vol. 9, a c. di C. Tafuri, D. Beronio, AkropolisLibri, 2018, p. 84

(5) Conversazione con Paola Bianchi, aprile 2021

(6) V. Jannkélévitch, De l’improvisation, Edition Flammarion, Paris 1998; trad. it. di A. Arbo, Dell’improvvisazione, Solfanelli 2014, p. 20

(7) P. Bianchi, Corpo politico. Distopia del gesto utopia del movimento, cit.
(8) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Librarie Gallimard, Paris 1945; trad. it. A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Firenze-Milano 2018, p. 287
(9) Donatella di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2020 pp. 89-90
(10) Per Paola Bianchi «la drammaturgia è la direzione profonda dello spettacolo»; sulla drammaturgia, Cfr. P. Bianchi, Corpo Politico. Distopia del gesto utopia del movimento, cit., pp. 31-66
(11) Conversazione con Paola Bianchi, aprile 2021
(12) J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017, p. 134
(13) Paola Bianchi adotta la formula dell’artista Riccardo Benassi nelle citazioni, ovvero «come mi ha detto Didi-Huberman la protesta è un atto di sollevazione per affrontare il potere dal punto più alto possibile», al posto della dicitura «come dice Didi-Huberman […]». In tal modo, la danzatrice sottolinea quanto per lei la lettura sia un rapporto intimo, un incontro ravvicinato con l’autore, poiché, afferma Paola: «le parole scritte da Didi-Huberman (che prendo come esempio) non sono le stesse per tutte e tutti, ma sono filtrate dal nostro pensiero, dal nostro corpo, dalla nostra capacità, dal momento in cui le leggiamo. In un dato momento sono colpita da una frase ma se rileggo lo stesso libro dopo tempo sarò colpita da altro. I colpi della cultura sono colpi forti, personali e intimi, colpi che ci mettono a nudo e che presuppongono un’intimità. La voce di Didi-Huberman non è la stessa per chiunque. Il suono della sua voce così come quello che ha scritto arrivano a noi per mezzo di un lavoro personale che può addirittura trascendere l’intenzione dell’autore». 

(14) (15) (16) P. Bianchi, Nel mentre del tempo, a c. di Roberto Castello, «93% Materiali per una politica non verbale», n.11, maggio 2019

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Roberta Nicolai
Danza e Gestus: le infinite desinenze di un "corpo politico" *

Il corpo è un’estensione, un’esposizione. Non significa che il corpo è esposto. Piuttosto che consiste nell’esporsi. Non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo. Tra corpi. Siamo corpi. Il corpo non è il luogo di una proprietà, non ci può essere riappropriazione. Per sua essenza è compresenza di corpi.

Politico accostato a corpo non delimita un ambito, non definisce uno sguardo. Non toglie assolutezza. Non comprime il corpo puro, la pura presenza. L’aggettivo politico indica il soggetto corpo e lo pone al centro della sua essenza. Quella di essere corpo tra corpi. Uno tra molti. Uno tra tutti.

Parlando di danza, corpo politico risuona da luoghi divergenti su piani diversi della creazione artistica. Coreografi e coreografe che dialogano con il valore politico del corpo in scena, del corpo che danza, senza che questo dialogare possa configurare una tendenza. Né una poetica riconoscibile e replicabile. Come dire che l’emergere della valenza politica del corpo si articola in presenze artistiche che hanno percorsi e tratti stilistici e linguistici differenti e che, in ognuna di queste individualità, il tema entra da prospettive e a livelli specifici della singola poetica.

PAOLA BIANCHI o dei molti
Paola Bianchi ha avviato nel 2019 il progetto ELP un articolato contenitore di formati basato sulla trascrizione verbale e registrazione in voce di posture del corpo create da archivi di immagini, al cui interno sono stati prodotti molteplici spettacoli e dispositivi scenici a partire dal fulcro generativo, il solo Energheia.
Per Bianchi il corpo è politico. Dire corpo è dire politico. Poiché – come lei stessa afferma – il corpo è la cosa della politica. Corpo politico è anche il titolo del suo libro.
Nel suo lavoro è riconoscibile un’intenzionalità che informa la creazione, la dota di strumenti – come la costruzione di archivi di immagini della memoria collettiva - la incarna in una presenza scenica corporea sempre definita, inserita all’interno di una griglia invisibile di pensiero che si rende visibile nella danza di un corpo che sceglie di essere sulla scena, non di stare sulla scena. Una moltitudine danzante precipitata in un unico corpo.
Nel suo lavoro i due termini si pongono in una sorta di trasparenza l’uno con l’altro. Non si tratta di una coincidenza tautologica, piuttosto il soggetto corpo politico è l’agente di uno smarginamento della figura che danza, di un’oscillazione tra l’individualità del corpo - con i suoi nervi, ossa, muscoli, tensioni - e il suo essere al mondo tra corpi. E ciò è l’origine del movimento. Una postura, un tutt’uno che informa le opere, i processi di creazione, l’elaborazione di metodologie, le architetture progettuali e coincide con l’atto stesso dell’essere sulla scena e di essere al mondo. Quella di Bianchi è una poetica intenzionata a riguardarti. È un essere corpo aperto ai molti modi del corpo.
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* Il testo è stato pubblicato su Hystrio Dossier/La nuova scena della danza italiana, gennaio 2022, p.46

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Samantha Marenzi
Fotografia e danza tra documento e creazione artistica. I due esempi di un atlante di figure e di un archivio di posture *
[ un estratto ]


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II. La fotografia nella danza. Le immagini come memoria impressa nel corpo

[ … ] E c'è ancora il caso di Paola Bianchi, che nel suo progetto ELP usa fotografie radicate nell'immaginario collettivo a partire dalle quali prendono vita una serie di operazioni coreografiche. Se pensiamo a un superamento dell'idea della fotografia del corpo espressivo come mero documento della danza, il progetto di Paola Bianchi sposta l'accento non tanto sul "documento", ma sul "della danza". La fotografia è qui utilizzata come documento della storia, e stabilisce un rapporto materiale col corpo inteso come deposito di memoria, come archivio. Ma, ancora, non come archivio della danza. Il suo progetto si pone infatti anche all'altro capo di quella che André Lepecki ha individuato come la tendenza della danza contemporanea di ricreare coreografie del passato rispondendo a una necessità archivistica propriamente coreografica, e appunto usando, come recita il titolo del suo saggio su questo tema, Il corpo come archivio. Il corpo di Paola Bianchi non si fa archivio della storia della danza, ma archivio della storia tout court. Esplorando il rapporto tra postura (ossa, muscoli, materialità fisica) e memoria (personale e collettiva) rivendica la sua dimensione di corpo politico, come lo definisce lei stessa da prima e da oltre il progetto sulle fotografie: cosa della politica e strumento per incidere sulla vita pubblica. Corpo intelligente, pensante, scrivente. Luogo dell'azione, della materia e della conoscenza, della dialettica e dell’avvenimento (Si veda il suo libro d'artista, pieno di riferimenti letterari e filosofici, Paola Bianchi, Corpo politico. Distopia del gesto utopia del movimento, a cura di Silvia Bottiroli e Silvia Parlagreco, Editoria & Spettacolo, Spoleto 2014).



ENERGHEIA photo Paola Bianchi

II.1 – ELP di Paola Bianchi: il corpo danzante come archivio di posture 

All'inizio del 2019 Paola Bianchi inizia la raccolta di immagini destinate al progetto ELP. Chiede ad amici, conoscenti e collaboratori di inviarle le fotografie che ritengono più rappresentative della memoria collettiva. In primavera, a Torino, durante la prima residenza artistica relativa al progetto, entra in sala col suo bagaglio di figure che dispiega nello spazio. Ne scrive, in un dialogo a due voci con Roberta Nicolai che ha seguito le varie tappe del processo di creazione: «Davanti a me quasi 350 immagini. Un archivio retinico-mnemonico. Le ho sistemate sul pavimento della Sala Grande Stireria della Lavanderia a Vapore. Le guardo. Sono stampate in bianco e nero […]. Scelgo, elimino. Alcune sono ricorrenti, altre sono affascinanti. Separo. Opero la prima scelta». (Bianchi 2019: 18) La coreografa racconta il lavoro solitario delle diverse giornate. Tra un racconto e l'altro si dispiegano i riferimenti teorici e i tasselli di un complesso apparato concettuale: Georges Didi-Huberman, Aby Warburg, le immagini come depositi di movimenti ed emozioni, come campi di forze e assi di traiettorie, ma anche le fotografie come specchi della morte, che uccidono il soggetto consegnandolo a una vita nuova. Primo giorno. Secondo giorno. Terzo giorno: «Entro nelle forme. Sono le forme a entrare dentro me, a modificare lo stato del corpo, a sconquassare l'ordine delle membra. Tutto si scompone e il corpo inizia a riconoscere, a riconoscersi nella scompostezza. Mi infilo nelle pieghe di quelle immagini e le pieghe chiamano altre pieghe, le immagini si concatenano una all'altra» (Bianchi 2019: 20). Così, la danzatrice inizia l'operazione di montaggio. MONTAGGIO! Scrive, in maiuscolo e col punto esclamativo, a indicare il motore di un processo compositivo ma anche l'opportunità di un «rimontaggio del tempo». Montaggio significa ritmo. «Un fraseggio della storia. Poi Roberta dirà: l'angelo della storia! Benjamin! L'ho visto!» (Nicolai 2019: 20). Quarto giorno. Quinto giorno. Sesto giorno: il grande affresco tardo medievale conservato a Palazzo Abatellis a Palermo diventa la mappa del movimento della danzatrice nello spazio. Il terreno d'azione ne assume le misure, 6 metri per 6,42. Le traiettorie ne seguono le linee. Settimo giorno, arriva Roberta Nicolai, tra i principali interlocutori della danzatrice per questo progetto, che ha coinvolto anche Raimondo Guarino come tutor di altre tappe. Il processo si apre a uno sguardo esterno. Nei giorni successivi prende forma l'assolo ENERGHEIA. Il primo di una serie di tasselli che compongono il progetto ELP fatto anche di laboratori, coreografie per altri danzatori solisti e in ensemble. Ciascuno di questi tasselli meriterebbe una riflessione a sé, che a partire dai grandi temi della trasmissione e della scrittura coreografica entri nei processi di reinvenzione e riconfigurazione a cui Paola Bianchi li sottopone. Bastino i titoli di due dei moduli di ELP per percepire la nervatura del progetto. 


ENERGHEIA photo Paola Bianchi

ENERGHEIA appunto, il termine con cui Aristotele indica l'azione, l'essere in atto, e ancora, come spiega la coreografa, «l'atto di trasformazione, l'essere in opera. Accanto alle attività che producono opere, ve ne sono altre senza opera in cui l'energheia è soggetto stesso (ad esempio la danza). L'energheia, intesa come operazione perfetta, è senza opera e ha il suo luogo nell'agente» (Dalla presentazione dell'assolo, leggibile nella pagina del suo sito a cui rimando anche per una descrizione dei diversi moduli del progetto: https://elpdance.blogspot.com/)
Si assiste così, nell'assolo, a un processo di trasmutazione che parte dalle fotografie, oggetti sia reali che simbolici (che in scena restano invisibili), e arriva al corpo all'opera, all'atto che la fotografia, invece di immortalare, ha scatenato. Un altro titolo/emblema è EKPHRASIS, una elaborazione coreografica per danzatrici e danzatori basata su un elemento caratterizzante del progetto ELP, che sta alla base anche di altre azioni performative: la descrizione neutra delle posture che dalle fotografie sono state assorbite nel corpo formando in ENERGHEIA i micro-movimenti di danza che sostituivano l'idea stessa di sequenza. Descrizioni dettagliate, registrate con la voce neutra della coreografa e trasmesse in diversi modi ai destinatari. 


ENERGHEIA photo Paola Bianchi

EKPHRASIS – letteralmente il discorso che fa apparire l'opera attraverso la sua descrizione – rompe dunque il meccanismo dei processi di trasmissione della danza, da sempre basati sull'imitazione del movimento. Qui la posizione arriva attraverso l'udito e non tramite la vista. Il corpo agisce nella tensione tra il potere delle immagini e il potere della parola, e traduce i movimenti passandoli al setaccio della propria immaginazione e delle proprie caratteristiche fisiche. La stessa postura passa da un corpo all'altro senza mostrarsi. Lo disegna dall'interno, incorporando e trasformando le immagini. Un anno dopo, per un altro tassello del progetto, Paola Bianchi è di nuovo da sola in una sala, a spargere immagini a terra (Paola Bianchi, O_N. ELP / Altre memorie, in Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, Volume undicesimo, a cura di Clemente Tafuri e David Beronio, AkropolisLibri, Genova 2020, pp. 19-21). Arrivano dalla memoria di altri popoli e di altre culture, e costituiscono un nuovo passo verso la creazione di un archivio di posture. Un archivio trasversale, trans-culturale, che coglie l'essenza delle decine di corpi raffigurati. Corpi sconosciuti, anonimi, celebri, vivi, morti, straziati, festanti, felici. Corpi che la luce ha disegnato sulle fotografie e consegnato per sempre alla memoria. Corpi lontani nel tempo che agiscono sul corpo presente. E che, oltre a muoverlo, lo danzano.


Paola Bianchi in O_N photo Margherita Masè
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* Il testo è stato pubblicato su Creating for the Stage and Other Spaces: Questioning Practices and Theories edited by Gerardo Guccini, Claudio Longhi and Daniele Vianello 
Essays and contributions from the Third EASTAP Conference 2020
Arti della Performance: orizzonti e culture, n. 13, 2021 Collana diretta da Matteo Casari e Gerardo Guccini - AlmaDL University of Bologna Digital Library

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Paola Bianchi
O_N
ELP | altre memorie*


Il corpo umano con le sue capacità mnemoniche, oniriche e immaginative è il mezzo vivente delle immagini.
Hans Belting

L’immagine è cenere mischiata, più o meno calda, di diverse braci.
Georges Didi-Huberman


Nel mese di febbraio ho avviato una nuova fase del progetto ELP per ampliare la ricerca intorno alle immagini e agli archivi di posture. Ho incontrato donne e uomini, ragazze e ragazzi provenienti da Egitto, Burkina Faso, Cina, Brasile, Libia, Venezuela, Albania, Israele, Cile, Turchia, Bangladesh, Perù, Cuba, Gambia, Guinea Conakry, Senegal, Kosovo, Marocco. Ho chiesto loro di donarmi immagini, di condividere la loro memoria retinica. 
Immagini che hanno attraversato mari e terre per chilometri e chilometri, superando confini, luoghi e nazioni, custodite negli occhi, impresse nella memoria di esseri umani erranti, cosa porteranno nel mio corpo? Immagini simbolo per ognuno di loro, immagini iconiche che non riconosco. 
Nei mesi successivi avrei dovuto incontrare altre persone provenienti da altri paesi, ma tutto si è fermato. Un brusio di fondo assordante ha attraversato quei giorni di chiusura al mondo esterno, e proprio in quei giorni ho avuto questa visione oscura:
Spazio vuoto, nero, uno spazio così grande da non riuscire a percepirne i confini. 
Al centro una sedia - vedo lo schienale. 
La sedia è vuota. 
Una sedia? Non ho mai usato una sedia in uno spettacolo. Perché la sedia? 
Tolgo la sedia, ma quell’immagine resta fissata nella retina – chiama una staticità che non riconosco, che non voglio riconoscere. 
Lo spazio è vuoto, grande, potrei dire immenso, i confini si perdono nel nero denso, un nero che è petrolio. Appesa al centro una lampadina. Un cerchio di luce nello spazio.
Dopo tre mesi di vuoto, di pieno, di incertezze, dopo tre mesi consumati nelle domande, giorni infiniti che si sono spenti alla luce dell’alba, notti con un buio che non concedeva pace, il primo giugno entro in sala. 
Sono in sala. Sono a L’arboreto, in residenza. Respiro. Il corpo respira. Mi ritrovo corpo in azione, sento di nuovo la cavità, il punto in cui si appoggia la spinta, sotto lo scheletro, dentro le ossa, tra un osso e l’altro. E allora la pelle si apre ai segni, diventa trasparente. La ferita riprende a pulsare. 
Le immagini raccolte a febbraio, stampate in bianco e nero, sono ora stese a terra. Immagini sconosciute che fanno muovere lo sguardo. Le divido per gruppi – tematici? Forse. Ne nascono blocchi e dentro quei blocchi vado a scavare.
Allora lo sguardo si sposta verso i bordi, a volte anche fuori dai bordi. Cosa sono quelle folle per me? Cosa urlano, cosa dicono, in che lingua parlano? Dovrei indagare uno a uno tutti i momenti immortalati, conoscere la storia di ogni popolo, per cercare, invano, di sapere. Ma sapere cosa? No, non è mio compito conoscere le storie del mondo, non è mio compito capire. Io devo intuire, quello so fare. Devo commuovermi davanti a quei corpi sconosciuti, devo piegare la mia carne non il mio pensiero. Devo rifiutare quelle posture di violenza che non conosco, ma posso farlo solo attraverso il passaggio all’interno del mio corpo. Devo possedere quelle posture. Devo aprire alla contraddizione, devo spezzare la linea del conosciuto, del consueto, della facilità. Allora mi spingo fino in fondo tralasciando la forma. Non è più icona, è immagine pura, nuova, sconosciuta, trasparente nella sua essenza oscura. L’oscenità di quei corpi anonimi, il loro essere fuori dalla scena nota li rende trasparenti perché leggeri e allo stesso tempo densi di nuovo senso. Non cerco la forma, cerco l’essenza, la forza interna, la forza emotiva dei corpi, dei tanti, dei famosi, dei soldati, dei morti. Ora li conosco, ora so come sono quelle ossa, conosco la consistenza di quei muscoli, ma non so la loro storia. E questo resterà il punto interrogativo più grande: da dove arrivano, dove vanno? Un pezzo di ognuno è entrato nel mio sangue perché quel sangue ha cercato di seguire il flusso della forma. Non è vero che se non si conosce non si sa. Se si comprende si sa. E comprendere la tensione, le variazioni di tensione, è un modo per stare dentro, è un’immersione profonda. La memoria del corpo non tradisce. Il corpo prende, trattiene, si modifica, si piega alle forme, il corpo non dimentica. 
c’è un braccio alzato
c’è una mano che perde la forza
c’è un ginocchio che si piega
c’è un ginocchio a terra
c’è l’altro ginocchio a terra
c’è una mano con le dita spezzate
c’è l’altra mano con le dita spezzate
c’è un piede che non tiene l’aderenza al suolo
c’è l’altro piede che non riesce a tenere l’aderenza al suolo
c’è un tentativo che non finisce mai
Il 15 giugno finisce la residenza. 
Ora so che una lampadina c’è. Ora so che il cerchio è lo spazio di questa azione, il luogo che accoglie O_N.

*Il testo è stato pubblicato in C. Tafuri D. Beronio, Teatro Akropolis Testimonianze ricerca azioni, Volume decimo, Genova, AkropolisLibri 2020



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Serena Gatti*
Note satellitari di primo impatto intorno al dispositivo ELP

“La voce prepara al corpo il luogo dove esso si dirà”. 
La voce che annuncia. La voce che forma.  

- Nelle tracce sonore di Paola Bianchi, composte per il dispositivo ELP la voce indica con parole precise una forma fisica, che grazie al corpo dell’ascoltatore/danzatore diventa linguaggio articolato e tuttavia unico, personale, originale per ogni attuante. La voce, la parola detta, sono veicoli diretti del corpo, la voce è portatrice di forma ancora prima di quello che viene creato/danzato: il corpo sta dentro le parole. La danza nasce da un ascolto. Il primo gesto del danzatore è in questo caso l’ascolto.
Per Merleau Ponty la relazione tra linguaggio e pensiero va fatta iniziare dove il silenzio si rompe e inizia il gesto. Nel dispositivo ELP il silenzio è rotto da una voce: l’ascolto delle indicazioni espresse, la definizione di una forma, di una postura o attitudine del corpo, porta al costituirsi fisico di una forma incarnata dall’attuante/danzatore. La voce acquista così una centralità determinante, una valenza simbolica, maieutica, demiurgica e il linguaggio della danza diventa addizione di suono e segno, una forma incarnata a partire dal dire: “senso e segno, pensiero e parola, riconosciuti nella loro implicazione chiasmatica”, direbbe Merleau Ponty. Un venire incontro, uno scaturire, un prendere forma, un contaminarsi, un tradurre in gesto.
In ELP la voce è demiurga, ha il potere di creare la danza, non evocandola, ma descrivendo con chiarezza una forma. Marius Schneider scrive di miti di creazione secondo i quali il creatore tradusse il pensiero sonoro in immagini visibili e udibili. “Nella tradizione vedica la parola ark (cantare) è sinonimo di “spirare, sacrificare, dispiegarsi, svolgersi”. Cantare significa “dare”, e udire “ricevere”. Il suono in ELP come dispositivo di creazione.

- Se da un lato il corpo è lo strumento di traduzione delle indicazioni date dalla traccia sonora, e veicolo di unicità, dall'altro, in un senso non opposto, ma complementare, emerge a mio avviso, o almeno, rimane aperto, l'aspetto del contatto con il “vuoto”, come condizione necessaria alla risonanza/creazione. Tra l’indicazione della voce nella traccia sonora e il prendere forma nel corpo accade da un lato il restituire la precisione descritta ma al contempo un contatto intimo col “vuoto” o con i propri simboli/immagini/memorie inconsce, tale da generare in ognuno forme con caratteri diversi, seppur rispondenti alla stessa indicazione. Parlo di vuoto come zona fertile ed intima della creazione, qualcosa che sfugge dal meccanico eseguire. Si potrebbe pensare che seguire le indicazioni date dalla traccia sonora generi un approccio asettico e poco duttile e un risultato meccanico e scontato. Non è così. C’è una sorprendente zona di invasione, di scambio, la penetrazione accade nella corporeità e nella percezione, in un’ampia rosa che va da  quella fisica a quella del proprio immaginario. Non c’è niente da inventare eppure c’è invenzione. 
Cosa porta il corpo a tradurre una forma in un certo modo piuttosto che in un altro? Questa domanda nasce spontanea dalla restituzione delle esperienze che emergono dal dispositivo ELP. Viene sovvertito il meccanismo di imitazione che si avvera ricopiando attraverso il canale visivo - come in genere si usa - la frase di danza o la serie di forme proposte dal coreografo. Inoltre si avverano creazioni distinte e originali da parte di ogni attuante/esecutore/danzatore. La traccia sonora è precisa e definita e la risultante, la risposta dei corpi, altrettanto precisa ma varia nell’interpretazione. L’esecutore sentirà sua la forma creata, probabilmente con maggiore sicurezza rispetto alla forma appresa tramite le vie dell’imitazione attraverso il canale visivo. 
La questione è il modello. Nel dispositivo ELP il modello è da incarnare, creare, qualcosa a cui dare forma, là dove spesso attraverso l’imitazione pone una distanza di per sé difficile da colmare tra il modello che propone la frase e l’esecuzione della stessa col proprio corpo/movimento. Qui l’indicazione data si incarna e non è un più (o solo) un tendere a, un cercare di essere come, un provare a riproporre, un riprodurre. La risultante in ELP non è mercificabile, non ha un marchio al quale sottostare o al quale assomigliare. Pur avendo un riferimento ben chiaro e molto chiaramente indicato. Questo in fase sia di apprendimento sia di composizione è a mio avviso uno strumento potente. Il corpo dell’altro, la forma descritta sonoramente a cui si dà vita non è solo una figura anatomica, ma un luogo di interlocuzione e sensazione, una declinazione del mondo in quell’istante. 
Quanto questa declinazione attinga a miniere ben più profonde del nostro io e della nostra società, delle forme che fisiologicamente un corpo prende in un certo stato, o delle forme che per funzioni puramente geometriche esprimono alcuni valori/simboli, o delle forme che abbiamo appreso nella cultura dell’immagine in cui siamo sommersi è un’indagine molto interessante che questo dispositivo apre a studiosi non solo della danza ma anche di altre discipline.

- La traccia sonora è viatica di un corpo che si manifesta e acquisisce presenza attraverso una trama sottile tesa tra le indicazioni della voce ascoltata e la traduzione/interpretazione del corpo. Attraverso il dispositivo ELP e le sue innumerevoli implicazioni, ci si avvicina, come da sentieri laterali, al centro della soggettività, al rapporto che ciascuno “intrattiene con la propria danza”.  Il coinvolgimento non è solo degli organi fisici, ma della creazione/messa in forma del gesto/movimento. La mia impressione è che venga molto ben risolta la questione del giudizio (potrebbe avere anche altri nomi ma per amore di sintesi chiamiamolo giudizio), possibile quando in fase di apprendimento o di composizione ci si relazione a una forma/frase da creare. 
Qui non c’è un modello visivo da imitare (con le conseguenze viste sopra che questo comporta) e al tempo stesso non c’è il vuoto totale della creazione, con il possibile horror vacui. C’è una voce da seguire, come abbiamo detto demiurga, cha fa da salda colonna su cui poggiare l’architettura della forma che si sta creando. Cade l’eventuale paura di sbagliare, la possibile incertezza di aver mal compreso, il timore di non essere in grado. L’attuante/danzatore segue la voce registrata e al tempo stesso la voce, indicandoci, sembra seguirci. Il dispositivo non crea alleanze con il tema del giudizio e i suoi mostri, al contrario ne dissolve i possibili attracchi. La traccia sonora al tempo stesso indica con chiarezza e, a quanto risulta dalle esperienze, lascia margine interpretativo.

-   In una seguente fase del dispositivo il corpo incarnando la forma si apre alla relazione con gli altri, attua un dialogo con il fuori e porta avanti una differenza per cui può dirsi unico. Sempre Marius Schneider scrive che ciascun individuo possiede un suo suono individuale, una “voce interiore”, che è “una specie di ultrasuono impercettibile, e la sostanza sonora si può udire solo se affiora alla periferia del suo soggetto”.
ELP ha la capacità di far affiorare questo suono, trasformandolo in forma, quindi in movimento. Il suono intimo e personale che si crea porta alla luce il suono che fu già di un’altra forma, di cui la traccia sonora descrive i tratti. L’attuante/danzatore crea un materiale intimamente suo, originale ed unico, ma che a sua volta è intimamente legato all’umanità tutta o a momenti peculiari della storia e dal patrimonio di memoria collettiva da dove le immagini sono state tratte. Un’unicità che nel suo farsi istantaneo è anche memoria: conserva le tracce della nostra storia personale o sociale/politica. Presupposto necessario per la relazione è la ricerca dell’ “altro in sé” o del “sé nell’altro”. Presupposto per una relazione tra passato e presente. Da qui nasce un’interessante indagine sul corpo politico.

- Le variazioni e le intensità dello spazio-corpo del danzatore, anche là dove eseguono la stessa “forma”, trovano una composizione coreografica e quindi una risonanza nel corpo dello spettatore o del partner. La relazione con lo spazio esterno non si risolve con l’esecuzione delle forme ma coinvolge una struttura relazionale e spaziale che è fisica, affettiva, narrativa, estetica. Non si risolve nella presenza anatomica ma attraversa i livelli dell'inter-soggettività, facendosi unicità, esigenza di manifestarsi e incontro.
L'altro non è solo colui al quale ci rivolgiamo, ma colui attraverso il quale riconosciamo noi stessi, l'altro è il nostro corpo, la nostra eco, l'altra parte di noi. Sembra “chiudersi” qui, nell’incontro tra danzatore e spettatore, avverato nella danza, il cerchio da cui il dispositivo muove i suoi passi. Un chiudersi del cerchio che è in verità un aprirsi. L’altro (l’altro da sé, l’immagine di riferimento da cui la descrizione della traccia sonora prende avvio) incarna una forma che sarà detta dalla traccia sonora, a sua volta incarnata dal danzatore e restituita allo spettatore, in un generarsi multiplo di canali che si propagano tra il sé e l’altro, tra il noi e l’essere cittadini del mondo. Come ne Il visibile e l'invisibile Merleau-Ponty fa notare, si entra in contatto con una costellazione di altri e non con un unico altro. È questo quanto si verifica con ELP e le esplorazioni successive che lo portano verso composizioni di coreografia. Forse, continuerebbe Ponty, perché il corpo è via d’accesso all’altro: “n’est plus seulement un objet auquel ma conscience se trouve liée extérieurement, il est pour moi le moyen de savoir qu’il y a d’autres corps animés”. 


Note a margine: 
Scrivo attuante/danzatore per tenere fede ai momenti in cui il dispositivo è uscito dall’ambiente specifico dei danzatori aprendosi anche a incontri con altri attuanti.
Scrivo spesso più parole accompagnate da / in parte perché è una prima stesura, in parte perché scegliere una parola in particolare avrebbe bisogno di qualche linea esplicativa ma anche perché avverto che ELP si apre a tante interconnessioni che partendo dalla danza raggiungono anche altri universi e questo porta alla possibilità di usare più vocaboli e più vocabolari. ELP in verità è anche un dispositivo linguistico di generazione di sistemi. 
Ricordo di aver detto in macchina parlando con te che la geometria è una scienza sacra, almeno lo era nell’antichità. Ora non ricordo con precisione da quali strade prendeva vita quel ragionamento. 
Pensando a ELP all’inizio e anche ora mi viene in mente Feldenkrais forse perché è l’unica disciplina somatica che conosco che si esprime a partire dalla voce esterna e non dalla vista. Condivide con ELP il fatto che anche nel Feldenkrais a partire dalla stessa indicazione i corpi traducono in modi molto diversi tra loro. Penso che condivida anche il senso di una pedagogia non impositiva ma concepita dalla ricerca del proprio stare, del proprio essere.
L’altra cosa a cui penso è la Forma secondo Alwin Nikolais, che lui definisce tra i quattro capisaldi della danza insieme a motion, tempo e spazio. 

*Serena Gatti (Pisa, 5-7-1977) consegue il Dottorato in Studi Teatrali all’Università di Bologna e la laurea in Lettere all’Università di Pisa. 
Regista e performer, si forma in teatro fisico, danza contemporanea e voce, al seguito di R. Mirecka, G. P. Ang, D. Manfredini, E. Moscato, C. Morganti, F. della Monica, Living Theatre; (per la danza) S. Bucci, C. Zerbey, A. Certini, K.J. Holmes, R. Giordano, K. Duck, O. D’Agostino, P. Mereu.
Collabora professionalmente con Alfonso Santagata, Company Blu, Pontedera Teatro, Fondazione Toscana Spettacolo, Gey Pin Ang,  Az Theatre, Teatro d’Inverno, Tenuta dello Scompiglio, Teatrino dei Fondi. 
Fonda nel 2005 la compagnia Azul e crea diverse produzioni sia per il teatro e sia per spazi non convenzionali, in particolare luoghi chiusi, dimenticati o abbandonati. 
Per i progetti citati è artista in residenza in Italia e all’estero: Goldsmith (Londra), Guinnes Theatre, (Singapore), Città del Teatro (Pisa), Grattacielo (Livorno), Festival Amiata (Grosseto), Teatro dei due Mondi (Faenza), Tenuta dello Scompiglio (Lucca), Salerno Creativa G.A.I. (Salerno), Tiga (Napoli), Isole a tratti (Alghero), Menuspatuve (Vilnius, Lituania) Teatro El Fino (Buenos Aires, Argentina), Dansearena (Hammerfest, Norvegia), Spazio Off (Trento), Lanificio 25 (Napoli), Fondazione Valletta 2018 (Malta). 
Con i ragazzi disabili del Poliedro di Pontedera forma la Compagnia BOOM, con cui lavora dal 2009.
Tiene workshop per teatri, conservatori musicali, compagnie, centri culturali in Italia e all'estero.
Pubblica saggi di Teatro (tra cui Il gesto vocale in Teatro e Storia, vol. 33, Bulzoni Editore) e versi di poesia (Felici Editori, La traiettoria Blu, L'Area di Broca).


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Paola Bianchi Roberta Nicolai
ELP | processo di creazione*

ENERGHEIA

Paola

BREVE PREMESSA 
All’inizio del 2019 ho interpellato via email – ho evitato il contatto diretto per non influenzare la scelta – una quarantina di persone, diverse per età, sesso e professione, alle quali ho posto una domanda: quali sono le immagini pubbliche, e non personali, che si sono impresse nella tua retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella tua memoria visiva? 
Immersi come siamo nel calderone delle immagini, caratteristica primaria di questo secolo, quei frammenti di accadimenti fermati su supporto analogico o digitale sono a tutti gli effetti pezzi di storia, un atlante mnemonico personale e condiviso.

PRIMO GIORNO
Davanti a me quasi 350 immagini. Un archivio retinico-menomonico. Le ho sistemate sul pavimento della Sala Grande Stireria della Lavanderia a Vapore. Le guardo. Sono stampate in bianco e nero – i colori del lutto. Scelgo, elimino. Alcune sono ricorrenti, altre sono affascinanti. Separo. Opero la prima scelta. 

Un'immagine, ogni immagine, è il risultato di movimenti provvisoriamente sedimentati o cristallizzati al suo interno. Questi movimenti la attraversano completamente, hanno ciascuno una traiettoria - storica, antropologica, psicologica - partendo da lontano e proseguendo al di là di essa. E ci obbligano a pensarla come un momento energetico o dinamico, per quanto specifico nella sua struttura. [ … ]
G. Didi-Huberman 

Cosa è successo prima di quel momento immortalato? Immortalare – la morte è presente come un fil rouge, un leitmotiv, un leitfossil come direbbe Aby Warburg. Del resto la fotografia è legata alla morte con un cappio stretto, nasce proprio per uccidere il momento e allo stesso tempo per dargli nuova vita. Cerco quella nuova vita.
Che ritmo ha quell’immagine? Che forza racchiude? Quale tensione è imprigionata in quel corpo oramai passato?

SECONDO GIORNO
Assumo, incorporo, copio per dimenticare la forma, per perdermi nella sostanza. Ogni immagine ha una sua vita.

Una bella mattina del mese di maggio una leggiadra amazzone percorreva, in sella a un’elegante giumenta saura, i viali fioriti del Bois de Boulogne. [ … ] 
In una bella mattina di maggio, una svelta amazzone percorreva, in sella a una splendida giumenta saura, i viali fioriti del Bois de Boulogne. [ … ] 
In una bella mattina di maggio, una svelta amazzone percorreva, in sella a una sontuosa giumenta saura, i viali pieni di fiori del Bois de Boulogne. [ … ] 
Una bella mattina di maggio, una svelta amazzone percorreva su una sontuosa giumenta saura i vialetti in fiore del Boi. 
A. Camus 

Essenza. Tolgo il superfluo. Cosa sono quegli svolazzamenti di braccia e di gambe, quegli inutili spostamenti? “Quei movimenti d’aria da ventilatori?” per citare la mia maestra Anna Sagna.

Lavoro in solitudine. Non sopporto sguardi esterni, il mio è più che sufficiente. Riprendo in video qualche frammento. La notte invio le riprese a Ivan (Fantini)  – il suo sguardo esterno è punto fermo della visione.
Nomino le immagini, do loro un nome che spesso non appartiene a pieno a quel momento immortalato. Nomino il dettaglio, il punto in cui il mio sguardo si fissa – la tensione in una mano, nel collo, nello spazio intorno.

Il dettaglio è esattamente lo spazio in cui risiede il significato [ … ]
G. Didi-Huberman 

TERZO GIORNO
Entro nelle forme. Sono le forme a entrare dentro me, a modificare lo stato del corpo, a sconquassare l’ordine delle membra. Tutto si scompone e il corpo inizia a riconoscere, a riconoscersi nella scompostezza. Mi infilo nelle pieghe di quelle immagini e le pieghe chiamano altre pieghe, le immagini si concatenano una all’altra. Cosa le lega? Perché quella scelta? Non so rispondere. Alcune parole affiorano: straniamento, discontinuità, contrasti, rotture, dispersioni, rotture della continuità, scarti, differenze, connessioni, relazioni, biforcazioni, alterazioni, costellazioni, metamorfosi, interruzioni, relazione di distanza, di inversione, di crudeltà, di non-senso. MONTAGGIO!
Una esplosione della cronologia, un rimontaggio del tempo – il perturbante avanza. Montaggio mnemoincarnato – traslando la definizione di montaggio mnemotecnico di cui parlava Godard. 
Un fraseggio della storia.

Poi Roberta dirà: l’angelo della storia! Benjamin! L’ho visto!

QUARTO GIORNO
Ritorno a cercare l’essenza, l’esse, l’essere. Dimentico il fare.

Analizzo lo spazio dell’immagine. Cosa contiene? 

Nascono sequenze, anzi blocchi. La parola sequenza è pericolosa, troppo spesso vincolata a una serie di movimenti o di passi, come direbbe qualcuno, di conti, di un due tre quattro…, di precisione nella ripetizione. Non amo la sequenza, la rifuggo da molto tempo perché troppo spesso lì il corpo fa, il corpo non è più.

Blocchi. Nascono blocchi. Ogni blocco ha un senso legato al corpo, ai suoi stati, alle sue trasformazioni. Grovigli della memoria, incarnazioni successive, trasformazioni, imperfezioni, un miscuglio di distruzioni e sopravvivenze, Nachleben.

Il lavoro si concentra sull’anatomia, sulle trasformazioni del corpo, esige una visione ravvicinata - lo sguardo a ridosso. L’azione chiede l’esclusione della frontalità per aprire le porte a una visione disomogenea e senza un punto di vista privilegiato. 

Suono. 
Mesi fa ho inviato a Fabrizio la registrazione di alcune parole chiave connesse al progetto ELP. Fabrizio mi fa ascoltare i suoni basati su campioni trattati della mia voce, una narrazione che quindi non può essere compresa ma solo percepita – come dice lui.
Chitarra  elettrica, vibratore, i suoi innumerevoli pedali, oggetti vari. Il suono pervade lo spazio.
Iniziamo a lavorare per blocchi, sento uscire i suoni dalla mia pelle.

QUINTO GIORNO
Corpo – suono. Consonanze e dissonanze.
E lo spazio?

SESTO GIORNO
“Il Trionfo della morte di Palermo – Un’allegoria della modernità” - ho portato con me il libro di Michele Cometa. 
Giardino | horror vacui | spazio concluso | nessuna via d'uscita | lo spazio si avvolge da fuori al centro, dal centro al fuori. 
L’affresco si trova a Palazzo Abatellis, a Palermo. La sua dimensione è imponente: 6 metri per 6,42 metri.
6 x 6,42 – questa la dimensione dello spazio d’azione di ENERGHEIA. Ne tracciamo i confini, da lì non devo uscire – ma non sarà poi vero.
Spirali | sguardi | mani | i musicisti | la catasta | ossa | i mendicanti | la morte e il suo destriero | nunc stans | un vortice.

SETTIMO GIORNO
Arriva Roberta.
Riprendiamo il filo dei pensieri, molti, che si accavallano, si mescolano in un montaggio alineare, consonante al percorso interno del lavoro.
Analizziamo insieme il Trionfo della morte di Palermo, le direzioni si chiariscono.

MONTAGGIO DEI BLOCCHI | il prima, il dopo, nel mentre dell’essere.
Un montaggio anacronico. 
Materia e memoria.
Il mio corpo è un archivio.

Non invio più le riprese a Ivan – due sguardi mi confonderebbero.

I GIORNI SUCCESSIVI
Operazione di pulizia | ripetizione | imparare a essere nella scena di Energheia.


Roberta

Quando sono arrivata in sala a Torino Paola aveva già creato i blocchi coreografici - le incarnazioni delle immagini - e Fabrizio aveva già ideato le partiture musicali connesse alla danza.  Ogni blocco aveva un titolo e all’interno ogni immagine era indicata da una parola. Abbiamo usato per tutto il tempo quelle parole per comprenderci e orientarci. Non ho mai chiesto perché all’interno dello stesso blocco dopo fauno venisse santa, quale sensibilità o pensiero o entrambi avevano portato Paola a mettere le immagini in quel preciso ordine e non in altro. Non c’è stato bisogno di chiedere perché era evidente che quel montaggio aveva una sua interna necessità. Insieme invece ci siamo chieste – e su questo abbiamo lavorato durante la prima residenza – quale sequenza dovessero avere i blocchi e quale fosse lo spazio – la posizione e l’orientamento – dei punti di partenza degli stessi blocchi e di ogni singola figura. C’erano già alcuni elementi compositivi importanti: la pianta doveva avere una dimensione precisa e obbligata in 6 m x 6,42 m; il pubblico doveva, auspicabilmente, essere disposto a ferro di cavallo e avere quindi una visione ravvicinata ma orientata e, nell’inevitabile differenza della prospettiva, le visioni dovevano essere tutte compatibili con il senso profondo del lavoro. E nessuna visione doveva essere privilegiata. 
È stato cercando di essere contemporaneamente il primo spettatore e anche tutti gli spettatori che Energheia ha preso la sua forma scenica. Quasi naturalmente.
Il punto è che avevo percepito da subito, appena visionati i blocchi separatamente e non nell’ordine in cui Paola cominciava ad immaginarli – proprio per non condizionare la mia  percezione e l’ipotesi di successione che le avrei proposto subito dopo – che quel materiale corporeo, quello che Paola aveva creato incarnando le 88 immagini selezionate dall’invio massiccio da parte dei suoi complici poetici, aveva una densità del tutto particolare, una capacità di rispondere alle prospettive spaziali mettendo in campo la propria natura di entità in trasformazione, di immagine fatta corpo che si fa immagine, agendo un flusso corporeo che non faceva altro che trovare la propria strada dentro la pianta (quasi) quadrata della scena.
E qui la questione si fa complessa. Perché se è evidente che Paola lavora da sempre sulla salda aderenza interna con quello che potremmo, nei termini della nostra percezione dello stesso, chiamare l’esterno, - lavora cioè nella stringente necessità che le ragioni interne edificano agendo dall’interno il corpo che danza - un dato ulteriore emergeva in quel materiale corporeo rispetto ai precedenti spettacoli e quel dato apparteneva alla natura del materiale. 
Quel materiale nasceva da una costruzione – personale e collettiva – di archivio.
Foucault definisce così il suo Archivio trasformativo: «Con questo termine non intendo la somma di tutti i testi che una cultura ha conservato in suo possesso come documenti del proprio passato, o come testimonianza della sua mantenuta identità; non intendo neppure le istituzioni che, in una data società, permettono di registrare e di conservare i discorsi di cui si vuole salvare la memoria e mantenere la libera disponibilità […] Esso non ha la pesantezza della tradizione e non costituisce la biblioteca [senza tempo né luogo] di tutte le biblioteche […] Piuttosto, l’archivio è il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati […] gli enunciati vengono trasformati da questo sistema generale in eventi  oggetti». 
La dinamica tra l’esterno – l’invio delle immagini a loro volta generate da un esterno più ampio seppur filtrato dalla memoria individuale all’interno di una memoria collettiva – e l’interno, proprio tale campo di tensioni costituiva la natura profonda del materiale. La sua capacità di trasformazione e di adattamento alla traccia di significati che uno spettacolo va a comporre non doveva rispondere a paradigmi tecnici, né narrativi, ma solo alla propria natura mutante, in trasformazione costante e in dinamica tra opposizioni da e verso il significato, da e verso l’irriconoscibilità e il riconoscibile.
Ecco cos’era quel materiale: un sistema dinamico di trasmissione e di trasformazione, un sistema archivistico-corporeo che trasforma enunciati e crea oggetti.


EKPHRASIS
Dodici giorni a L’arboreto – Teatro Dimora

Paola

Dagli archivi retinico-mnemonici di
Alessandra Cristiani, Andrea Grassi, Angela Fumarola, Attilio Nicoli Cristiani, 
Barbara Toma, Chiara Girolomini, Clemente Tafuri, Daniele Del Pozzo, David Baronio, Elena Di Gioia, Enrica Brizzi, Enrico Pastore, Enrico Piergiacomi, Fabio Barovero, 
Fabrizio Modonese Palumbo, Giovanni Boccia Artieri, Giulio Sonno, Graziano Graziani, Ivan Fantini, Katjuscia Fantini, Laura Gemini, Lucia Medri, Marta Bichisao, 
Michele Di Stefano, Paolo Migliazza, Paolo Pollo Rodighiero, Paolo Ruffini, 
Raimondo Guarino, Roberta Nicolai, Saba Anglana, Serena Gatti, Silvia Calderoni, 
Silvia La Ferrara, Stefano Murgia, Valentina Bravetti, Vincenzo Schino, Walter Porcedda

immagini
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incarno le immagini
il mio corpo | archivio di posture
|
montaggio anacronico
ENERGHEIA
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descrizione delle posture | registrazione in voce
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smontaggio
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dieci rimontaggi aleatori
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dieci corpi
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EKPHRASIS

L’archivio retinico-mnemonico collettivo è entrato nel mio corpo; il mio corpo è diventato un archivio di quelle immagini; quelle immagini incarnate nel mio corpo hanno creato un archivio di posture; la descrizione di quelle posture entrerà in altri corpi che diventeranno archivi essi stessi.

Numero le descrizioni. Le divido per gruppi: posture | stati del corpo | spazio/traiettorie. Elimino ogni traccia della mia visione interna, del mio essere le posture. Che cos’è una descrizione? 
Esempio: Sono in piedi. Le gambe leggermente separate, le ginocchia un po’ piegate, i piedi paralleli. Le punte dei piedi guardano verso destra, il busto eretto in torsione verso sinistra, la testa guarda verso la spalla sinistra. Le braccia sono distese lungo i fianchi. Il dorso delle mani rivolto in avanti. Le mani compiono dei piccoli movimenti basculanti a destra e sinistra.

Nove giovani danzatrici e un danzatore (dai 23 ai 28 anni).
Consegno loro le indicazioni, a ognuno una “sequenza” diversa, tramite email.
Ascoltano le indicazioni, incarnano le posture in solitudine, ognuno con le cuffie connesse al proprio smartphone / creano la loro sequenza.
Li accompagno verso la distruzione della sequenza.
Li aiuto a scardinare le loro certezze da danzatori: il movimento bello, pulito, la sequenza ben fatta in cui immancabilmente si inserisce il “pezzo forte” del proprio essere coreografi di se stessi, quella piacevole sensazione di sentirsi muovere tanto rischiosa per noi. 
Li conduco per mano verso la crisi, ognuno la propria (dove si appoggia la postura? | come si modifica la postura? | come incidono le forze sul corpo?); riemergono con nuova forza.
Ripetizione | ripetiamo e cerchiamo il senso - il senso dello stare nella scena | ci concentriamo sul corpo | essere corpo che si muove.
Chiedo loro di nominare le posture.
Cerchiamo l’essenza | il perché di ogni istante | ci alleniamo a dimenticare la postura per concentrarci sulla sua essenza, sul senso.
Essere | non fare
Attenzione estrema, sempre – bandire la parola transizione

Allenare il corpo a due punti di vista – frontale e dall’alto | la scena, il nostro foglio bianco

Apertura dello sguardo | percezione totale della scena | dieci corpi nella scena | ricerca delle consonanze | un’altra forma di attenzione estrema

Un ritmo cardiaco non è binario (colpo forte/colpo debole), ma ternario (colpo forte/colpo debole/silenzio): “Il nulla deve quindi contare almeno quanto il colpo; e forse anche di più, perché senza il nulla non ci sarebbe colpo.” 

narrazione del corpo
flusso



Roberta

Le indicazioni hanno il carattere del frammento. Ma l’indicazione non è cercare il modo di passare da un frammento ad un altro. Nessuna gerarchia tra gli istanti che compongono l’agire la scena. Tutto, ogni singolo istante, ha la dignità di esistere nella sua pienezza. È l’elemento distintivo della danza di Paola. Non ci sono deroghe sulla scena.
Così indicazioni che sembrano semplici, a cui ognuno – ragazzi del liceo, persone affette da Parkinson, giovani danzatori – ha trovato il suo modo per rispondere, abitano la scena nella loro complessità. La svelano. La rivelano. Immagini appaiono e si disfano senza alcuna prepotenza, senza la necessità di esercitare la propria forza. Esistono nella loro naturale trasformazione di fantasmi immateriali. E vivono, oltre la loro permanenza, nella nostra retina.


*Il testo è stato pubblicato in C. Tafuri D. Beronio, Teatro Akropolis Testimonianze ricerca azioni, Volume decimo, Genova, AkropolisLibri 2019



























































































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